Altipiani

Irving Fisher fu colto e poliedrico come John Maynard Keynes e, come economista, fu perfino più fecondo. Molte delle idee di Keynes furono rielaborazioni di concetti avanzati in precedenza da Fisher, che sulla deflazione da debito, un tema che nei nostri tempi è ritornato attuale, vide più lontano di tutti. Eppure oggi, nel comune sentire, Fisher è associato al mondo, che ci appare lontanissimo, che precedette il 1929, mentre Keynes lo vediamo come uno dei fondatori del nostro mondo, nato economicamente sulle ceneri del precedente. Probabilmente la damnatio memoriae di Fisher ha molto a che fare, almeno tra i non economisti, con le sue previsioni, clamorosamente smentite dai fatti, alla vigilia del crash del 1929 e nei primi mesi di quella che oggi conosciamo come la Grande Depressione. Se Fisher non riuscì a vedere il dramma che si profilava, doveva esserci evidentemente qualcosa di profondamente sbagliato nelle teorie della sua epoca, cui lui tanto aveva contribuito. Ma cosa dichiarò di così grave Fisher il 15 ottobre 1929, nove giorni prima del crollo? Disse che il mercato azionario aveva raggiunto quello che poteva essere considerato un altipiano permanente. E che cosa aggiunse il 21 ottobre per passare alla storia come simbolo della cecità del suo tempo? Disse che le azioni non erano care e avevano ancora spazio per salire. Nel dicembre 2003 due professori della Federal Reserve di Minneapolis (uno dei due era Edward Prescott, che pochi mesi dopo avrebbe ricevuto il Nobel) pubblicarono uno studio (The 1929 Stock Market, Irving Fisher Was Right) in cui si dimostrava che, sulla base degli utili che furono effettivamente conseguiti in quell’anno, la borsa di New York, anche al suo massimo, poteva anche essere considerata leggermente sottovalutata. La sottovalutazione era ancora più evidente sul piano patrimoniale. La capitalizzazione alla vigilia del crash era infatti pari al valore dei beni materiali delle società quotate, ma valutava zero i beni immateriali, che non sono un’invenzione dei nostri giorni ma esistevano anche allora.

A mettere in moto la Grande Depressione, secondo gli autori, non fu dunque il grande rialzo degli anni Venti seguito dall’inevitabile crollo, ma la sconsiderata paura della Federal Reserve che, incapace di valutare correttamente il mercato azionario, si spaventò per la portata del rialzo e si mise ad alzare i tassi fino a provocare il crollo, prima dei mercati e poi dell’intera economia. Un crollo che fu poi aggravato da ulteriori errori di politica monetaria negli anni successivi. La vicenda ci offre lo spunto per due considerazioni. La prima è che le migliori analisi fatte con la migliore buona fede non riescono mai a tenere conto di tutti i fattori in gioco. La seconda è che la supposta razionalità e onniscienza dei policy makers non è mai da dare per scontata. La caduta in disgrazia del Fisher che si lancia in considerazioni di mercato non si è limitata, storicamente, all’idea che l’azionario del 1929 fosse sottovalutato, ma si è naturalmente estesa alla sua previsione che, una volta salito ancora, il mercato si sarebbe assestato su un plateau permanente. Il ricordo di quella frase sfortunata rende a tutt’oggi difficile per qualsiasi analista ipotizzare altipiani di mercato. E non parliamo solo di altipiani permanenti, ovviamente improponibili perché di permanente quaggiù non esiste nulla, ma anche di altipiani di una qualche limitata estensione e durata, che sono diventati, ex ante, un grande tabù intoccabile, innominabile e inconcepibile. I mercati vanno su e poi vanno giù. Da almeno quarant’anni, del resto, non si vedono grandi rialzi seguiti da fasi laterali, ma solo da grandi bear market. O no? Un’eccezione, a dire il vero, ce l’abbiamo sotto gli occhi ed è costituita dalle borse europee, sostanzialmente piatte su un altipiano da tre anni. Anche la borsa giapponese, nei quattro anni precedenti l’Abenomics, dall’inizio del 2009 alla fine del 2012, ha vissuto una lunga fase laterale, anche se nel suo caso si è trattato di un bassopiano. Oggi nessuna casa prevede mercati laterali per i prossimi tre anni (oltre i tre anni, come ha detto ieri Powell, è quasi impossibile fare previsioni). Le leggi dello spettacolo, che valgono anche per gli analisti, impongono di scegliere. O l’ottimismo di maniera e d’ufficio del consenso (il solito rialzo annuale del 5- 10 per cento che non ha mai compromesso nessuna carriera) oppure l’ardita scommessa di un crollo, che si nota comunque e, se per caso si rivela esatta, garantisce qualche anno di ricche consulenze.

Eppure, a guardare le stime della Fed appena pubblicate, una fase laterale ci potrebbe anche stare. Da una parte c’è una crescita buona e rivista al rialzo, ma senza rischi di surriscaldamento. Dall’altra un’inflazione che sale lentamente, una Fed che le sta dietro alzando i tassi con passo regolare e senza spaventarsi troppo se per qualche mese si supera la soglia del 2 per cento sui prezzi o del 3 sui Fed Funds. Il tutto in un contesto di liquidità in contrazione graduale, compensato però da un resto del mondo che continua a crescere. Viste così le cose, non ci sono elementi per ipotizzare né grandi rialzi né grandi ribassi. I venti contrari si sono ormai alzati e continueranno a soffiare, ma l’economia è sufficientemente robusta da andare avanti lo stesso. Che cosa potrebbe dimostrare sbagliata la previsione di una fase laterale? Un milione di cose, naturalmente, a partire dal fatto che le stime della Fed di cui parliamo non sono quelle dello staff centrale, ma quelle delle Fed regionali, rappresentate nel board, spesso, da avvocati o uomini d’affari, bravi a cogliere gli umori della loro regione ma a volte deboli se si parla di modelli econometrici. Poi c’è da considerare che nessuna banca centrale prevederà mai una recessione nelle sue stime ufficiali per la semplice ragione che, se la prevedesse, agirebbe in anticipo per prevenirla. Eppure le recessioni accadono e questo significa che le stime, qualche volta, sono sbagliate. È difficile che una banca centrale alzi i tassi per provocare una recessione. A ogni rialzo c’è la convinzione che l’economia lo possa reggere e invece ogni tanto non è così. Ci sono poi incognite legate al posizionamento, a fattori geopolitici, a improvvise riconsiderazioni di settori (come la tecnologia in questa fase) che da trascinanti diventano di peso e fanno scendere tutto il mercato. Accadde nel 2000 e potrebbe ripetersi di nuovo, sia pure in forma attenuata.

Sul breve termine, per fortuna, la visibilità è un po’ migliore. La correzione iniziata il 25 febbraio sta riprendendo a mordere e proseguirà fino a che non avrà Plateau intermontano. Ripulito il mercato da ogni residua compiacenza . L a correzione azionaria darà temporaneo sostegno ai bond lunghi e sarà bene approfittarne per venderli. Pur con tutte le difficoltà sopraggiunte nelle ultime settimane, il 2018, nel suo complesso, non sembra un anno da segno negativo rilevante. A un certo punto la crescita degli utili americani, stimata del 20 per cento e finora non rimessa in discussione, tornerà a pesare. Sarà dunque possibile un’estate di recupero. La fine dell’anno, però, non sarà necessariamente così positiva. Peseranno le elezioni americane e la prospettiva di utili 2019 a crescita molto più bassa. Alla fine registreremo forse borse piatte. Non accade spesso, ma ogni tanto succeede.