Quella cinese non è una Borsa per cuori deboli. Da inizio anno, dopo una rapida salita di quasi il 10%, ha perso tutto quanto accumulato e si trova a ridosso dell’importante media mobile a 200 giorni, considerata una sorta di spartiacque fra mercato al rialzo e al ribasso.
Una borsa, quella del Drago, che da inizio anno segna un – 2 % e patisce la crescente avversione per il rischio azionario, tornata a serpeggiare, oltre alla minaccia protezionista di Donald Trump. Si teme che possa aver effetti concreti sull’economia le cui esportazioni a febbraio sono volate del 44,5% su base annua, molto di più del +13,6% atteso dal consensus. Le importazioni sono avanzate del 6,3%, rispetto al +9,7% atteso.
Il balzo delle esportazioni è il più forte degli ultimi anni. Se da una parte conferma la solidità dell’economia cinese, spiega anche perché Donald Trump abbia alzato il livello di scontro sui dazi doganali. In particolare Trump agisce contro la Cina, visto il rapporto troppo squilibrato fra l’economia Usa e un regime accusato di “concorrenza sleale”.
Basti solo pensare che nel mese di febbraio, il surplus si è attestato a $20,96 nei confronti degli Usa, in lieve calo rispetto ai $21,9 miliardi di gennaio: il valore rimane più che doppio, tuttavia, rispetto al febbraio del 2017. E nel 2017 il surplus della Cina nei confronti degli Stati Uniti è stato pari a a $275,81 miliardi.
La guerra commerciale Usa versus Cina sui dazi è in pieno svolgimento e negli scorsi giorni in realtà lo scenario sembra in via di miglioramento dopo che il segretario al Tesoro degli Stati Uniti Steve Mnuchin, si è detto ottimista sulla possibilità di raggiungere un accordo con la Cina in grado di scongiurare i dazi.
Per rinunciare ai dazi (fra i 50 e i 60 miliardi di dollari) i vertici dell’amministrazione Trump sembra chiedano a Pechino di ridurre le tariffe sulle importazioni di auto, consentire il controllo straniero di società del settore finanziario e acquistare più semiconduttori americani. Va detto che fino ad oggi, Pechino, ha fatto di tutto per tenere bassa la tensione e le ritorsioni annunciate. Ma la politica apparentemente “bulla” di Donald Trump sta iniziando a mietere consensi anche fra i “liberal” perché se “l’arte della trattativa” (il primo best seller di Trump si intitolava proprio “The Art of deal”), per quanto dura, se andrà a buon fine l’economia statunitense ne sarà favorita.
In Cina, peraltro, il nuovo leader a vita Xi Jinping lavora su tempi più lunghi di quelli occidentali e ha l’obiettivo di portare la Cina a diventare nei prossimi anni la prima potenza mondiale.
Dal punto di vista economico il Pil cinese del 2017 è stato del +6,9% con un’accelerazione che non si vedeva da diversi anni delle famiglie e dal miglioramento della domanda esterna (soprattutto di prodotti meccanici, elettronici e high-tech), oltre che da riforme politiche volte a ridurre gli squilibri macroeconomici e a limitare i rischi finanziari.
Tra i benefici raggiunti, la creazione “relativamente elevata” di posti di lavoro, con un 11 milioni di lavoratori in più. La Banca Mondiale prevede inoltre che nei prossimi anni la crescita del Pil cinese andrà leggermente decelerando, registrando un + 6,4% nel 2018 e un + 6,3% nel 2019.
Numeri da fare invidia anche se un qualsiasi stop a questa avanzata trionfale dell’economia capitalistica a pianificazione comunista più importante del mondo può rendere i listini di Shangai e Shenzen molto nervosi. Basti pensare a quanto accaduto tra il febbraio e il giugno del 2015 dove le azioni cinesi erano arrivare in pochi mesi a salire del 70% ma poi nel giro di poche settimane si assistette a un crollo quasi verticale e un ritorno addirittura al di sotto del punto di partenza.
Un crollo velocissimo che aveva costretto le autorità cinesi a intervenire preoccupati dalle conseguenze dello scoppio di una bolla allora fondata sul credito facile e sull’immobiliare con milioni di anziani cinesi che si erano messi a speculare sulle azioni e che avevano portato i multipli delle azioni cinese a valori di oltre 50% rispetto a quelli attuali.
Oggi i multipli delle azioni cinesi sono più ragionevoli e il tema forte degli ultimi mesi è soprattutto quello delle operazioni di consolidamento fra le società del settore e chi guarda a questa asset class e diversificazione geografica può valutare alcuni fondi d’investimento selezionati (vedi tabella) in questa area piuttosto che gli ETF poiché questo è uno di quei rari casi dove i cloni sembrano comportarsi nettamente peggio delle sicav e il costo di gestione maggiore di queste è giustificato in diversi casi.
Sarà importante vedere come si evolverà la guerra commerciale fra Usa e Cina. Ma per Xi Jinping, il dirigente cinese dotato di più potere dai tempi di Mao in un momento storico nel quale la Cina è, a sua volta, più potente di quanto non sia mai stata da secoli nulla sicuramente deve sfuggire troppo di mano. E se c’è far vincere una mano a Donald Trump non cascherà la Grande Muraglia. “La pazienza è potere: con il tempo e la pazienza, il gelso si tramuta in seta” recita un antico proverbio cinese.
A cura di Salvatore Gaziano, Strategist SoldiExpert SCF