La curva invertita. Visi pensosi, preoccupati. Portafogli rivisti continuamente alla luce di questo mitico evento dato sempre per prossimo. E dopo l’inversione della curva, a distanza di qualche mese, l’inevitabile tempesta, fatta di recessione e di grande bear market azionario. Siamo andati avanti più di un anno a torturarci con la curva invertita, i tassi a breve che superano quelli a lungo e che sono come la guerra che porta la carestia che porta a sua volta la peste. Incapace di sopportare una visione così cupa, una parte del mercato ha elaborato per mesi una teoria più moderata, a tratti consolatoria, altre volte addirittura quasi ottimista, quella della curva piatta.
I tassi a breve saliranno, certo, ma una volta arrivati al livello dei tassi a lungo si fermeranno. In questo magico allineamento potremo andare avanti per sempre. L’inflazione resterà moderata, la crescita economica sarà stabile, le borse avranno spazio per tranquille ulteriori conquiste. I teorici della curva piatta la collocavano al due per cento nel 2017 (parliamo naturalmente della curva americana) e oggi la ipotizzano al tre, un punticino di differenza (che è pur sempre il 50 per cento) ma lo stesso spirito irenico e rasserenante. La curva piatta come Nirvana.
Ed eccoci invece terremotati in pochi giorni e con grande brutalità in un mondo che cominciavamo a considerare alieno e primordiale, quello della curva regolare, una situazione da ciclo giovane o al massimo nello splendore della maturità, ben lontana dalla senilità crepuscolare della curva invertita o dal paradiso utopico e artificiale della curva piatta. È come se il mondo fosse improvvisamente tornato più giovane di due anni, quando i tassi a breve erano ancora vicini allo zero e la curva si arrampicava gradualmente verso le scadenze più lontane.
O addirittura di vent’anni, quando la deflazione esisteva in natura solo in Giappone, l’inflazione era una certezza e i tassi reali erano ancora positivi, come era stato fin dall’origine dei tempi. Per anni abbiamo parlato di ritorno quasi completato alla normalità dopo la grande crisi del 2008, ma era una normalità striminzita, fatta di crescita bassa, di inflazione positiva ma anemica, di tassi reali inesistenti e di quantitative easing messo magari nel cassetto ma sempre pronto a essere ritirato fuori da un momento all’altro.
In realtà, guardando le cose dall’alto, ci accorgiamo che nella normalità, quella di una volta, stiamo iniziando a entrarci solo adesso e che qui resteremo verosimilmente nella prima metà del prossimo decennio. Una situazione da primi anni Sessanta con un mercato del lavoro teso ma non ancora troppo squilibrato, una solida inflazione strutturale non ancora troppo alta, un forte impulso fiscale che genera una crescita brillante e una produttività in accelerazione e, infine, una politica monetaria che fa da ancella a quella fiscale e fa parlare poco di sé. Per entrare in questa storia augurabilmente di successo ci sono però dei prezzi da pagare da parte dei mercati finanziari.
Il primo è che il ritorno dei rendimenti reali positivi (tanto più positivi quanto più ci si allunga nella durata) è una buona notizia per chi inizia oggi a investire liquidità, ma lo è meno per chi ha comprato bond in questi dieci anni di repressione finanziaria. Rendimenti che ci eravamo abituati a considerare tollerabili diventano nel nuovo mondo miseri e punitivi e i nostri vecchi bond devono scendere di prezzo per essere competitivi con i nuovi. Il secondo prezzo da pagare è che i multipli azionari, calcolati sulla base del decennale americano, devono anch’essi adeguarsi alla nuova realtà e quindi scendere, a partire da quelli particolarmente elevati delle società di crescita, come la tecnologia in America o il lusso in Europa. La caduta dei mercati in queste ore viene proprio da questa consapevolezza.
La stagionalità negativa di ottobre esaspera questa caduta, che verrà riassorbita in parte dalla stagionalità positiva di fine anno, ma la questione di fondo resta. Si tratta di ritornare alla lavagna e rifare i calcoli sulla base di una discesa dei multipli che, iniziata già da gennaio, proseguirà lentamente nei prossimi anni. Il terzo prezzo da pagare è che, in generale, il passaggio dalla spinta monetaria alla spinta fiscale invertirà il rapporto tra crescita dell’economia e crescita degli asset finanziari. Nei dieci anni passati la prima è cresciuta poco e i secondi molto. Nei prossimi sarà il contrario.
Per chi possiede asset finanziari quanto abbiamo detto potrebbe non suonare bene, soprattutto in un momento in cui l’SP 500 perde il 5 per cento dai massimi, mentre Europa e Asia si trovano ben al di sotto dei livelli di inizio anno. In realtà le prospettive non sono così negative. Chi ha bond, se ha le scadenze relativamente brevi che abbiamo raccomandato negli ultimi anni, li potrà rimpiazzare a scadenza con titoli con rendimenti più alti. A chi ha borsa facciamo invece una domanda. Era preferibile avere azioni a 2940 di SP 500 in un clima da ultimi giorni di Pompei (sensazione di curva invertita imminente e successiva recessione) o avere le stesse azioni a 2770 con l’idea che se la Fed ha spinto verso l’alto la parte lunga della curva significa che ha fiducia in una crescita ancora duratura e solida dell’economia (e quindi dei profitti)?
Naturalmente è possibile dare interpretazioni meno positive di quanto sta accadendo. È possibile che la spinta verso l’alto dei rendimenti a lungo derivi semplicemente da un’offerta eccessiva, dovuta a sua volta alla necessità di finanziare la politica fiscale espansiva. Il rialzo dei rendimenti non sarebbe in questa ipotesi governato dalla Fed ma il semplice risultato di uno squilibrio tra domanda e offerta di titoli.
Ma anche mantenendo l’ipotesi che la Fed abbia il controllo della situazione si può legittimamente argomentare che lo stock di debito in America e nel mondo è ben più alto, in rapporto al Pil, che nei mitici anni Sessanta e che il rialzo dei tassi sta già producendo conseguenze negative sui mercati della casa e dell’auto. La Fed, in questo scenario, sarà costretta a sospendere il ciclo di rialzo dei tassi prima di quanto sarebbe giusto fare per mantenere sotto controllo l’inflazione. Solo il tempo ci dirà se la crescita brillante sarà anche sostenibile a lungo o se si manifesteranno segni tali di surriscaldamento da fare davvero ripartire un’inflazione eccessiva.
Nell’arco dei prossimi 6-12 mesi la scommessa è che il quadro complessivo rimarrà benigno e che la Fed cercherà di rimanere dietro la curva, modificando i tassi solo dopo essersi accertata in tutti i modi che l’economia e i mercati finanziari assorbiranno i rialzi senza troppi problemi.