Gli intellettuali hanno sempre avuto un ruolo importante nella società francese, sia nella versione di grandi mandarini (fiori all’occhiello del potere e produttori di consenso), sia in quella di critici radicali del sistema. I grandi momenti di svolta della storia di Francia, a partire dalla Rivoluzione del 1789, sono stati preceduti e accompagnati da un’intensa elaborazione filosofica, politica e culturale.
Oggi il loro ruolo non è più di guida, ma rimane spesso alta la loro capacità di lettura del reale e di riflessione. Il movimento dei Gilets jaunes, che secondo l’autorevole e compassato Le Monde ha indotto alcuni prefetti a definire prerivoluzionaria la situazione nei loro dipartimenti, è nato e procede da solo e non ha dietro un’elaborazione sofisticata. È ancora più prepolitico del poujadismo della Quarta Repubblica, un movimento antifiscale e antiparlamentare degli anni Cinquanta, radicato tra i piccoli commercianti impoveriti dalla modernizzazione, che trovò comunque un leader in Pierre Poujade.
I Gilets jaunes nascono dal basso e sono un movimento gassoso particolarmente forte nella Francia profonda, lontana da Parigi, quella che di solito ha subìto e non fatto la storia. Non sono assimilabili a nessun partito e non hanno nessun riferimento nel movimento sindacale. Esprimono proposte talvolta confuse e contraddittorie, ma segnalano con evidenza e assoluta chiarezza un disagio profondo. Vivono in provincia, hanno visto negli anni chiudere l’ufficio postale, la banca, la farmacia. La qualità della loro vita è andata progressivamente deteriorandosi e ora devono usare l’auto per qualsiasi necessità. Sentirsi dire da Parigi (dove la macchina la usano in pochi) che la benzina inquina e va tassata di più li ha portati al limite di rottura. Ora chiedono che Macron se ne vada.
La risposta del governo ha segnalato una grave mancanza di empatia per questo disagio. Intellettuali mandarini come Bernard Henry Lévy hanno espresso disprezzo per il movimento, negandosi così la capacità di comprenderlo.
Le letture più interessanti sono arrivate da intellettuali meno schierati come Jean-Claude Michéa, Emmanuel Todd e Cristophe Guilly. Michéa lavora da anni sul distacco tra la sinistra e le masse. Todd, uno studioso che ha previsto la caduta dell’Unione Sovietica con dieci anni d’anticipo e le primavere arabe, studia ora il macronismo come vergogna di essere francesi.
Il più interessante è però Guilly, un geografo che da tempo descrive la Francia come un paese a tre cerchi concentrici, Parigi, la banlieu e il resto. A Parigi vive un mondo soddisfatto e globalista. Intorno a Parigi vivono gli immigrati che lavorano per i parigini del centro e che, pur non vivendo certo da ricchi, hanno l’attenzione dei politici, l’affitto sociale e tutta una serie di sussidi. Fuori c’è invece un mondo dimenticato, con sempre meno servizi e sempre più tasse.
Questa analisi non ci serve per capire dove andranno a parare i Gilets jaunes, che probabilmente torneranno un giorno all’improvviso nel nulla dopo essere all’improvviso spuntati dal nulla, ma per notare quanto siano strutturali e profondi i motivi del loro disagio. E per ricordare che ciò che è strutturale ha il brutto vizio di ritirarsi ogni tanto nell’ombra, ma di non andare mai via.
Come nota Charles Gave la geografia sociale francese non è così diversa da quella inglese o americana. In Germania e in Italia, aggiungiamo noi, le cose sono più complicate, ma non completamente diverse. Chi si differenzia è semmai l’est europeo, socialmente più omogeneo e stabile (come, in un altro contesto, il Giappone).
Veniamo da tre decenni di globalizzazione, nei primi due trionfale e nel terzo sempre più zoppicante. La stabilità politica e sociale dell’Occidente è stata buona anche dopo il 2008, ma è andata corrodendosi strutturalmente. La voglia di sperimentare novità, per quanto dirompenti, continua a crescere. La prossima recessione accelererà questi processi.
I policy maker dovranno stare molto attenti a quello che faranno nei prossimi mesi. Il tentativo di Trump di riscrivere le regole del commercio internazionale potrà portare a un rilancio della globalizzazione se riuscirà o alla sua fine e alla recessione se fallirà e produrrà solo dazi sempre più alti. Il tentativo della Fed di normalizzare la politica monetaria porterà alla recessione se verrà condotto in modo dottrinario o a un prolungamento dell’espansione se si sarà pazienti e si alzeranno i tassi solo quando si sarà assolutamente certi che la cosa sia assorbibile senza troppi traumi.
Le preoccupazioni del mercato in questa fase sono perfettamente legittime, ma mettono l’accento solo sul bicchiere mezzo vuoto. Esiste, almeno potenzialmente, anche un bicchiere mezzo pieno, fatto ad esempio di un ISM americano a 60, che ai nostri occhi conta molto di più dell’inversione di una parte della curva dei rendimenti. C’è poi una Fed che si rende conto ormai perfettamente che il mercato è entrato in una fase psicologica fragile e negativa e che potrà permettersi il lusso, vista l’inflazione tranquilla, di rallentare i rialzi e di limitarli (per Kaplan potrebbe bastarne un altro e non per forza a dicembre).
A questo vogliamo aggiungere una trattativa tra Cina e Stati Uniti che è già partita in modo molto strutturato e con una forte motivazione da entrambe le parti. L’incidente Huawei, pur comportando qualche rischio vista l’importanza strategica della società, va visto più come un tentativo americano di aumentare la pressione per una riuscita delle trattative che come un modo per farle fallire.
Il mercato continua però a pensare a un esito negativo delle trattative e soprattutto a una Fed che risponderebbe ai dazi con più aumenti dei tassi. Non ne siamo convinti. I dazi porterebbero a flessioni di borsa, a un dollaro più forte e a minori aspettative di crescita, tra fattori che dovrebbero semmai indurre la Fed a procedere con i piedi di piombo.
I prossimi giorni, con il voto su Brexit ai Comuni e la marcia dei Gilets jaunes per chiedere le dimissioni di Macron, non saranno particolarmente facili. Il 19 dicembre, tuttavia, la Fed presenterà l’aumento dei tassi con un linguaggio molto rassicurante e potrà perfino arrivare a rinviare tutto a gennaio oppure, in alternativa, ad annunciare una pausa nei primi mesi del 2019. A quel punto, i mercati ipervenduti potrebbero rimettersi in piedi e regalarsi un finale d’anno e un inizio 2019 un po’ migliori.