Due mesi fa il rendimento del BTP decennale italiano toccò il 3.80 per cento. Oggi quel rendimento è sceso al 2.74. Chi l’ha comprato allora si ritrova adesso una plusvalenza del 9 per cento. Chi l’ha fatto? Soprattutto fondi pensione, assicurazioni e fondi esteri, pochi gli investitori individuali. Tra questi, anzi, qualcuno ha venduto sui minimi. La maggior parte però, magari incrociando le dita, ha tenuto.
Due mesi fa gli scenari per l’Italia, per molti osservatori, sembravano essere due, quello greco e quello argentino. Lo scenario greco comportava la Troika, la patrimoniale, l’uso libero e disinvolto del bail in per correntisti e obbligazionisti di banche in difficoltà e la ristrutturazione del debito pubblico detenuto da banche, fondi e privati. Lo scenario argentino comportava invece l’uscita dall’euro, la svalutazione e la nazionalizzazione delle banche con rimborsi simbolici ai loro azionisti e il blocco almeno temporaneo dei movimenti di capitale.
Oggi questi due scenari sono tornati sullo sfondo. Sembra assodato che le correnti euroscettiche dentro la maggioranza di governo, peraltro minoritarie, intendano l’uscita dall’euro solo come effetto di un’eventuale decisione concordata di scioglimento dell’unione monetaria e non come passo unilaterale dell’Italia.
Tre mesi fa esatti l’indice SP 500 toccò 2930, oggi siamo a 2470. Il Dax chiuse il 20 settembre a 12430, oggi siamo a 10580.
Molti investitori sono più infelici oggi rispetto a due o tre mesi fa. Questo è dovuto al fatto che misurano la loro felicità finanziaria dal livello assoluto del loro patrimonio, che, se mediamente diversificato, è oggi certamente più basso. La felicità finanziaria andrebbe però misurata anche (e soprattutto) sulla base della solidità strutturale del livello raggiunto. Questa solidità, per le considerazioni che abbiamo visto, è oggi molto più forte, per un investitore (e contribuente) italiano, rispetto a quella che veniva percepita in ottobre.
E c’è un’altra considerazione importante. Le perdite in cui si sarebbe incorsi negli scenari greco e argentino sarebbero state a titolo definitivo. Una volta che si è oggetto di un bail in si deve dire addio ai propri soldi. Quando una moneta svaluta, spesso è per sempre. Anche patrimoniale e nazionalizzazione comportano una separazione definitiva dai propri soldi.
Quando invece una borsa scende, se si rimane investiti, si può avere la legittima aspettativa (se il mondo non crolla e se si è costruito un portafoglio diversificato) di rivedere un giorno quello che si sta perdendo oggi. Per un’obbligazione questo è ancora più evidente. Se non si verifica un default, alla scadenza si avrà comunque il rimborso pieno con gli interessi.
Tornando a due mesi fa, il petrolio Brent era a 86 dollari, oggi è a 55. Il petrolio debole danneggia i titoli petroliferi e rallenta gli investimenti del settore. Per i paesi produttori è ovviamente negativo, anche se questi livelli sono per quasi tutti ancora sostenibili. Per tutti gli altri settori e paesi (tra cui in particolare l’Italia) il greggio debole è una benedizione e dà un importante contributo a tenere bassa l’inflazione.
Fino a tempi recenti l’inflazione appariva avviata verso un rialzo accelerato. I tassi, di conseguenza, erano previsti in rialzo marcato negli Stati Uniti e prossimi al risveglio in Europa. Oggi l’inflazione è in costante decelerazione. Rimane un po’ di tensione solo sulle retribuzioni, ma finchè quel punto in più rispetto ai prezzi al consumo è supportato dalla crescita della produttività gli aumenti salariali, come ha detto Powell, sono benvenuti.
Questa distensione sul fronte dell’inflazione sta iniziando a rendere possibile una stretta monetaria meno pronunciata. Il mercato, nel suo pessimismo, pensa che la Fed stia riducendo il tasso terminale perché è preoccupata per l’economia che si sta indebolendo. In realtà la Fed, a leggere le indicazioni del vicegovernatore Clarida per la prossima fase, basa le sue scelte sull’andamento dell’inflazione.
Abbiamo dunque, ricapitolando, una Fed molto convinta del permanere di un buon livello di crescita per il 2019 e al tempo stesso rassicurata sul fatto che l’inflazione, nell’orizzonte prevedibile, non sarà un problema. È uno scenario da Goldilocks, che in altri tempi sarebbe piaciuto molto ai mercati e che oggi invece li rende inquieti e cupi. Perché?
La prima ragione è che il mondo non si riduce all’America. Su Europa e Cina ci sono molti punti di domanda. Per cominciare a eliminarli occorre che sia raggiunto un accordo sul commercio tra Washington e Pechino, che si trovi una via di uscita non traumatica per la Brexit e che l’Europa dia qualche segnale di riaccelerazione delle sue economie rattrappite. Sono i tre temi, questi, che da soli basteranno a tenere i mercati sotto pressione nei primi mesi del 2019.
La seconda ragione è che negli anni passati si era raggiunta Goldilocks dal basso (cioè da una crescita dell’1 per cento), oggi la si raggiunge dall’alto (cioè dal 3). Questo induce molti a pensare che il 2 di Goldilocks sia solo una tappa temporanea nel cammino verso l’1 e lo zero. È un modo di pensare un po’ nevrotico, ma resterà diffuso finché non ci sarà evidenza del contrario.
La terza ragione è che è possibile che gli utili delle società siano l’anno prossimo, almeno per qualche mese, più bassi, sia pure di poco, rispetto a quelli straordinari del 2018. Niente di che, ma abbastanza da essere enfatizzato in un clima teso e nervoso.
La quarta, che è forse decisiva, è che le borse sono viste dalle banche centrali come strumenti di politica monetaria. Vengono incoraggiate a salire quando si vuole spingere l’economia, vengono abbandonate o addirittura spinte a scendere quando, come oggi, la si vuole frenare.
Come si vede il senso di questa Consolatio non è quello di fare intravvedere imminenti recuperi dei mercati (che difficilmente ci saranno nei primi mesi del 2019) ma di proiettare il bear market in corso su uno sfondo che non è nero ma grigio chiaro.