Nei racconti di fantascienza l’autore si trova ad affrontare il problema di che nome dare agli alieni. Agli alieni umanoidi delle saghe spaziali si possono dare nomi esotici (Firaxan, Ssi-Ruuk, Hrarf-Hrarfy) ma ancora pronunciabili. Se però si esce dal fantasy antropomorfico e si va nell’esobiologia vera e propria, alle forme di vita profondamente aliene vanno dati nomi ancora più misteriosi e indecifrabili. Per rendere l’idea, r* e u* andrebbero benissimo.
Gli appassionati sanno che, nella nostra realtà terrestre, r* è il tasso d’interesse neutrale (quello che non spinge né frena l’economia). Sanno anche che r* è ontologicamente parente di u*, il tasso naturale di disoccupazione (quello che non fa salire l’inflazione salariale e che una volta si chiamava Nairu).
Sia r* sia u* (come del resto l’output gap) sono creature aliene. Popper distingueva tre mondi, il Mondo 1 fisico, il Mondo 2 mentale e il Mondo 3 fatto di teorie scientifiche, miti e creazioni artistiche. I nostri amici r* e u*, benché uno dei due si definisca naturale, non appartengono al Mondo 1 per la stessa ragione per cui il diritto naturale (che si contrappone a qualcosa di innaturale che pure si trova in natura) tanto naturale non è, altrimenti verrebbe da sé e non ci sarebbe bisogno di invocarlo.
Insomma, i nostri amici appartengono al Mondo 3. Sono astrazioni o addirittura, a volere essere critici, sono creature mitologiche o angeliche. Ricordano il lavoro di quei fisici teorici che creano a tavolino universi fatti di equazioni e che sono universi possibili, ma non necessariamente reali. Il modello prevede una galassia in un certo punto x, poi si va a vedere e la galassia non c’è, ma il fisico teorico rimane tranquillo, perché il suo modello è internamente coerente ed è questo che conta per lui.
Ci siamo goduti il crollo delle Borse alla fine dell’anno scorso perché r* e u* avevano iniziato a lampeggiare molto forte
Era da più di un anno che il tasso di disoccupazione americano (ma anche tedesco e giapponese) era sceso sotto il suo livello cosiddetto naturale ed erano molti anni che il tasso di policy stava sotto il suo livello neutrale. Powell aveva raccontato in uno dei suoi primi discorsi da governatore che r* e u* gli ricordavano i simboli zodiacali. Era un modo per dire che andavano presi con le pinze. A un certo punto però, all’inizio di ottobre, si è spaventato e ha cominciato a prenderli molto sul serio. La sua paura ha contagiato il mercato, che è precipitato, fino al punto che Powell si è impaurito della sua paura e ha fatto una spettacolare marcia indietro, culminata ieri con una ridefinizione, vulgo manipolazione, di r* e di u*, oggi dichiarati più bassi di quello che si pensava.
È stato giusto spaventarsi in ottobre?
No, sia per la Fed sia per i mercati. È giusto oggi tornare indietro e ammettere in sostanza che ci si era sbagliati? Sì, è giusto. Sbagliare è umano e capire di avere sbagliato correggendo l’errore è segno di maturità. Tutto ha un prezzo però, e il prezzo dell’errore, oltre al ribasso che ha rovinato la fine del 2018 a molti investitori, è nel fatto che, avendo già gridato al lupo una volta, la Fed sarà timida ed esitante quando il lupo si presenterà sul serio, quando cioè i segni di surriscaldamento di questo lungo ciclo si faranno davvero preoccupanti.
Fino ad allora, tuttavia, sarà luce verde
I mercati, vedendo la Fed particolarmente morbida, hanno pensato che ci dovesse essere sotto qualcosa, ovvero dati economici negativi noti solo alle banche centrali. In realtà i dati sono gli stessi per tutti e la Fed vede quello che possono vedere anche i mercati, ovvero un’America con una crescita discreta e un resto del mondo decisamente poco brillante ma in via di recupero. Niente di trionfale, ma nemmeno niente di tragico.
In realtà a rendere volatile e confusa la reazione alle decisioni della Fed è stato l’irrompere improvviso sulla scena della possibilità di Brexit dura già a partire dalla settimana prossima. I protagonisti (la May, l’Europa, gli irlandesi, i laboristi e i conservatori entrambi divisi al loro interno) sembrano in effetti avanzare come sonnambuli verso il precipizio della Brexit senza accordo. Di solito la politica ha fantasia e risorse per trovare vie d’uscita all’ultimo minuto, ma è giusto, per i mercati, prezzare un certo rischio.
Quanto è grande questo rischio?
In caso di Brexit dura (ripetiamo, ancora improbabile) il Regno Unito pagherebbe un prezzo alto, ma non così alto come si dice, mentre l’Europa pagherebbe un prezzo più contenuto, ma non così basso come si dice. La sterlina infatti si svaluterebbe istantaneamente, proteggendo la competitività britannica e la borsa di Londra, sulla quale gli esportatori salirebbero di valore. In Europa sarebbe danneggiata particolarmente, tanto per cambiare, l’industria dell’auto tedesca, che esporta molto nel Regno Unito.
Chi ha sterline o case a Londra potrebbe ragionare così. Se la Brexit dura ha, per dire, un terzo di probabilità di realizzarsi, si può convertire in euro un terzo delle sterline, tenere un terzo in sterline cash e con il rimanente terzo comprare titoli di società esportatrici sulla borsa di Londra.
Per tutti gli altri, dicevamo, la luce è verde, non solo per le azioni ma anche per i bond. Intendiamoci, non ci sono grandi potenzialità di rialzo, ma c’è una solidità di fondo garantita dalle banche centrali almeno per il resto di quest’anno che permetterà esplorazioni in aree meno battute, come ad esempio i mercati emergenti. Come copertura di fronte a una ricaduta nel disordine, si potrà inserire con calma una quota di oro nei portafogli.
Quanto al dollaro, le decisioni della Fed lo indeboliscono, ma finché non ci saranno segni più convincenti di una ripresa europea, finché non avremo certezza di una Brexit senza traumi e finché non sapremo se e quando Trump aprirà un fronte di guerra commerciale con l’Europa, l’euro non avrà molto spazio per riprendersi.