Perché ci sono più rialzisti che ribassisti? Ovvio, si potrà pensare. In tempi storici di politiche monetarie espansive accompagnate da disinflazione gli asset finanziari non possono che salire. Il grande rialzo di azioni e bond parte del resto dall’inizio degli anni Ottanta. Nella prima fase la disinflazione è indotta a dire il vero da politiche monetarie restrittive, ma dopo qualche anno si scopre che l’inflazione continua a sgonfiarsi anche in fasi di politica monetaria neutrale.
Accade poi che, ogni volta che il ciclo economico si arresta e il rialzo delle borse si inceppa, la politica monetaria si fa sempre più espansiva, anche perché la disinflazione rischia nei tempi più recenti di trasformarsi in deflazione. I mercati si trovano dunque in una condizione ideale. L’inflazione che scende basta già da sola a gonfiare i multipli azionari e i bond. Se a questo si accompagnano politiche monetarie espansive e ampia liquidità, il gioco è fatto.
Eppure, a ben vedere, la volatilità dei mercati è sempre stata tale, in questi ultimi quarant’anni, da garantire anche a chi si fosse messo al ribasso (possibilmente al momento giusto) ampie soddisfazioni. Il 19 ottobre 1987 la borsa americana perse il 23 per cento in un solo giorno (e molto di più se si guarda ai minimi intra-day). Tra il settembre 2000 e l’ottobre 2002 l’indice Standard and Poor’s si dimezzò. Con la Grande Recessione del 2008-2009 perse 900 punti, passando da 1565 a 666. Altri 600 punti sono andati in fumo nell’ultimo trimestre dell’anno scorso.
In pratica gli ultimi quattro grandi ribassi hanno quasi distrutto, sommati insieme, l’intero valore odierno dell’indice, il risultato di due secoli di creazione di valore da parte dell’economia americana. Attenzione, però. Mentre i rialzisti, per passare da zero a 2900 non hanno dovuto fare nulla, se non lasciare in eredità da una generazione all’altra il loro portafoglio azionario, i ribassisti, per guadagnare altrettanto, avrebbero dovuto essere capaci di vendere ogni volta sui massimi e ricomprare sui minimi.
In ogni caso, che essere quasi tutti rialzisti dipenda più da fattori antropologici che da circostanze storiche è confermato dal fatto che la prevalenza degli ottimisti (anche un lungo che perde e mugugna, se tiene, o è ottimista o è irrazionale) è sempre esistita, anche in fasi storiche in cui le banche centrali non avevano ancora assunto quel ruolo di animatori del rialzo che hanno esercitato negli ultimi tempi.
Si pensi al caso dell’Italia, dove la borsa vale oggi un terzo di meno rispetto a venti anni fa e in cui la stragrande maggioranza degli investitori è rimasta lunga, ovvero posizionata al rialzo.
Una possibile spiegazione è che i rialzi, generalmente lenti, coprono la gran parte del tempo, mentre i ribassi, molto più veloci, sono brevi. Perfino l’Italia, in questi venti anni borsisticamente infelici (anche se eccellenti per chi ha tenuto titoli di stato a tasso fisso) ha avuto 11 anni di rialzo e solo 9 di ribasso. Questa asimmetria induce molti a pensare che i ribassi siano solo brevi parentesi. Si sta fermi un giro e poi si recupera. Chi è strutturalmente al ribasso, per contro, ha solo brevi parentesi di soddisfazione in una vita complessivamente d’inferno.
La selezione naturale ha fatto il resto. Le specie ribassiste, per sopravvivere, hanno dovuto scendere a compromessi e adottare degli accorgimenti. Molti coprono le loro scommesse al ribasso con altre al rialzo e vanno alla ricerca del valore relativo, l’alpha. Altri, come Fred Hickey (l’autore di The High-Tech Strategist), teorizzano tattiche di guerriglia e comprano put su singole azioni alla vigilia degli utili trimestrali con l’obiettivo di venderle rapidamente, perché in tempi di espansione monetaria anche le brutte notizie vengono dimenticate in fretta. Ci sono poi cavalieri solitari senza macchia e senza paura, come il leggendario Crispin Odey, che per potere proseguire nella loro sfida ribassista al mondo non hanno problemi ad accumulare perdite per anni e anni, animati dalla fede che un giorno riavranno indietro tutto e con gli interessi. E ci sono infine gli statistici alla Nassim Taleb che si giocano i cigni neri con piccole somme e grande leva puntando al colpo grosso.
Come si vede, gli short aggressivi, quelli che non si limitano a cavalcare un ribasso ma cercano di provocarlo (come Soros con la sterlina nel 1992), sono diventati più rari, perché le banche centrali sono diventate più abili nel governare i mercati. I ribassi, quando arrivano, non sono opera loro, ma dei lunghi che smettono di comprare e si travolgono tra di loro cercando di uscire tutti insieme dal mercato. In quelle circostanze, paradossalmente, gli short che si ricoprono finiscono con l’essere gli unici compratori.
Che destino aspetta i ribassisti? Con un ciclo maturo e asset finanziari vicini ai loro massimi storici il contesto per loro dovrebbe essere ottimale. Eppure non si vedono ancora grandi preparativi. Dopo un anno e mezzo in cui è sembrato che le banche centrali volessero normalizzare le loro politiche, ai primi segni di stress di economia e borse è stato ripristinato lo stato di emergenza permanente in vigore dal 2009 e l’aria è diventata di nuovo poco respirabile per gli short.
C’è però un’eccezione, limitata ma di grande interesse, perché potrebbe essere una finestra aperta sul futuro, un’anticipazione del mondo che verrà. Parliamo del pesante bear market che negli Stati Uniti sta colpendo la farmaceutica, il medicale e la previdenza sanitaria privata, con conseguenze che cominciano a sentirsi anche in Europa. È l’intero spettro politico, da Sanders a Trump, che si sta muovendo per tagliare le unghie a un settore che ha spesso abusato del suo ruolo, ma la cui profittabilità è decisiva se si vuole finanziare la ricerca.
Quando si parla di MMT si pensa sempre al deficit spending e alla voglia irresistibile di reflazione che sta contagiando l’America da destra a sinistra. Si pensa meno, sbagliando, all’altra faccia dell’ala sinistra della MMT che consiste nel controllo amministrativo dei prezzi che, insieme alle tasse, sarebbe l’arma per contrastare l’inflazione in un contesto di esplosione della spesa pubblica.
Se al controllo amministrativo dei prezzi e al rialzo delle tasse si dovesse aggiungere la limitazione o il divieto del riacquisto di azioni proprie da parte delle società e un’accentuazione della repressione finanziaria con l’imposizione di tassi reali negativi da parte di una Fed riconquistata dalla politica (anche qui, Sanders o Trump non fa molta differenza) come reagirebbe la borsa? Pensate bene prima di rispondere, perché non è una domanda facile. Questi fattori verrebbero infatti compensati (in tutto o in parte) da un forte aumento della domanda aggregata e da una svalutazione del dollaro.
Sotto la superficie tranquilla, con una Fed rilassata e mercati che si preparano a nuovi massimi nel prossimo periodo, la temperatura politica dell’America si sta alzando ogni giorno insieme con la disponibilità a fare nuovi (o vecchissimi?) esperimenti.
Si profilano tempi movimentati in cui tutti avranno spazio, tanto al rialzo quanto al ribasso.