Che disdetta. Il dollaro stava celebrando una rottura rialzista, che avrebbe finalmente messo la parola fine ad una prolungata stagnazione quando sono intervenute le dichiarazioni di Powell a stemperare gli entusiasmi per il biglietto verde.
Uno a uno e palla al centro. Anzi, a dirla tutta il rischio a questo punto sarebbe quello opposto: di una discesa alimentata dalla “delusione” (leggasi: esercizio degli stop loss) di chi aveva confidato nel breakout rialzista del Dollar Index.
D’altro canto, la volatilità ammoniva: c’è troppa apatia in giro per confidare in segnali di inversione credibili. Il fenomeno è globale: il Currency Volatility Index (CVI) calcolato e reso disponibile da JP Morgan, si attesta correntemente ai livelli più contenuti dal 2014.
Ma giova soffermarsi in particolar modo sul biglietto verde. Come evidenzia la figura in alto, lo scostamento fra il livello più elevato e quello più basso degli ultimi sei mesi, su Dollar Index è sceso di recente a meno del 3%. Una lettura storicamente infima.
Cosa aspettarsi dunque per il dollaro – e, a ruota, per il mercato valutario globale – da una simile compressione della volatilità?
Dal 1985 in avanti si rilevano soltanto due precedenti simili: datati 1996 e 2014. In ambo le occasioni il Dollar Index era reduce da un rialzo, e quella eccezionale compressione della molla produsse i due rialzi di dollaro più memorabili degli ultimi 34 anni.
Naturalmente due episodi sono ben pochi per giungere a conclusioni definitive. Se allargassimo un attimo i parametri, ricercando casi di volatilità a sei mesi compressa ma non fino a questo punto; otterremmo una casistica più ampia, il cui comun denominatore sarebbe uno: la volatilità è prossima a ripartire, in un senso o nell’altro.
Roba da strategia straddle le quali, come noto, si basano sull’acquisto simultaneo di opzioni call e put allo scopo di beneficiare di un drammatico aumento della volatilità.