A partire dagli anni Novanta, l’età dell’oro della globalizzazione, il mondo industrializzato riscoprì i Paesi emergenti e se ne innamorò. Questo processo ebbe varie cause, ma la caduta del socialismo reale (o, nel caso cinese, la sua radicale autotrasformazione) fu la principale.
Prima del 1989 il mondo era diviso in blocchi. Chi gravitava intorno a Mosca aveva da tempo bassi tassi di crescita ed era in ogni caso ostile o inospitale per gli investimenti occidentali. Chi gravitava intorno a Washington era spesso governato da élites corrotte o populiste che si alternavano a regimi militari. L’instabilità politica strutturale e la propensione per politiche di crescita finanziate a debito o attraverso politiche fiscali e monetarie inflazionistiche esponevano il Terzo Mondo filo-occidentale a crisi finanziarie frequenti.
I Paesi non allineati, dal canto loro, erano generalmente iperstatalisti, protezionisti e ostili agli investimenti esteri, fattori che contribuivano a tenere crescita e marginalità degli investimenti su livelli depressi. Solo la Cina, a partire dal 1978, aveva cominciato a muoversi su una strada di autoriforma e di sviluppo accelerato, ma nel 1989 la sua economia era ancora troppo piccola per alimentare aspettative di grande portata.
Negli anni Novanta, caduto il blocco socialista, si verifica una serie di fenomeni in parte strutturali e in parte una tantum. In molti paesi le economie prima autarchiche vengono spalancate all’improvviso alla concorrenza internazionale. Il loro capitale industriale viene azzerato e il loro cambio reale cade a livelli tali da rendere interessante la delocalizzazione dall’Occidente di molti settori industriali.
L’importanza della Cina
L’apertura delle frontiere, tuttavia, non sarebbe bastata, da sola, a creare il fenomeno degli emergenti. Fu infatti la Cina, con la sua crescita inarrestabile e il suo bisogno insaziabile di materie prime, a creare la domanda aggiuntiva che avrebbe fatto decollare molte economie in via di sviluppo. Una volta decollato lo sviluppo, si crearono le condizioni per una maggiore stabilità politica e per l’adozione di modelli meno autoritari di gestione del potere.
Fu a questo punto che ebbe origine la mitizzazione degli emergenti, promossi in blocco a Paesi stabili quasi come noi e con rendimenti sugli investimenti e tassi di crescita largamente superiori. Si confezionò la narrazione dei Brics, dei Next Eleven, dei Civets, acronimi e sigle dietro cui si presentavano liste sempre più lunghe di paesi che un giorno, tra il 2030 e il 2050, avrebbero ridotto l’Occidente a metà e poi un terzo del Pil globale.
La reazione degli investitori
La finanza si adeguò in fretta e per anni bastò avere un pizzico di coraggio per godere con gli emergenti di rendimenti obbligazionari e azionari irresistibili. La crisi asiatica del 1997-98, allargatasi presto alla Russia e all’America Latina, fu, vista oggi, una scossa di assestamento dovuta più a rigurgiti di cattive abitudini del passato (eccessi di investimenti e conseguenti disavanzi delle partite correnti) e a un’ancora scarsa esperienza nel gestire i flussi improvvisi di capitali esteri in entrata e in uscita che a una crisi del nuovo modello.
Il mondo emergente, del resto, superò indenne la crisi del 2000-2001 e quella del 2008. L’Africa, ad esempio, continuò a crescere nel 2008 e nel 2009, trainata dalla Cina e dalle sue aggressive misure di sostegno alla domanda globale. Fu in quel periodo che gli emergenti si conquistarono sul campo il titolo di investimento perfettamente rispettabile che avrebbe dovuto essere presente in qualsiasi portafoglio, vedove e orfani inclusi.
Ma fu lì anche l’apogeo, il punto massimo del loro successo e l’inizio del loro declino relativo.
Che cosa resta, trent’anni dopo, degli emergenti come nuovo Eldorado?
Il bilancio ha luci e ombre. Le luci sono più delle ombre, ma sono oggi fioche e confuse. Le prospettive sono discrete, ma non esaltanti.
Alcune conquiste sono irreversibili. Cina e Corea del Sud non sono più da considerare paesi emergenti. Fame e malnutrizione sono praticamente scomparse da tutto il pianeta. Centinaia di milioni di persone che prima vivevano in povertà fanno oggi parte dei ceti medi. L’apparato produttivo è diversificato e talvolta sofisticato. La domanda interna è cresciuta al punto da rendere molti paesi meno dipendenti dal ciclo globale. La capacità di autogoverno fiscale e monetario è molto cresciuta. Il processo di maturazione è evidente.
Evidenti sono però anche i limiti del modello di sviluppo che ci ha portati fin qui. C’è stata una doppia dipendenza, dal debito e dalla Cina (a sua volta dipendente dal debito). In questo non c’è nulla di grave. Crescere a debito non è obbligatorio, ma è stato storicamente molto frequente. I problemi nascono quando il rendimento marginale dei capitali presi in prestito si normalizza e scende. A quel punto occorre sempre più debito per creare un’unità di Pil. Finché il debito è poco questo non è un problema particolarmente grave, ma quando assume proporzioni simili o addirittura superiori a quelle dei paesi di antica industrializzazione le cose si complicano.
L’importanza della demografia
A questo va aggiunta la demografia, fino ad oggi largamente favorevole per gli emergenti ma fra poco negativa e in certi casi francamente preoccupante. Si pensi alla Cina e all’invecchiamento velocissimo della sua popolazione, che a fine secolo sarà di 400 milioni più bassa di oggi. A parte l’Africa e, ancora per qualche tempo, l’India, il resto del mondo emergente sarà presto a crescita demografica zero.
E della politica
Quanto alla stabilità politica, va ricordato che si accompagna generalmente alla crescita. Meno crescita significa erosione del consenso e disponibilità a tentare strade non ortodosse e più rischiose.
Guardando ai singoli casi, alcuni, come il Venezuela, si sono persi per strada, ma sono casi circoscritti. Preoccupano di più quelli che fanno sempre più fatica a stare a galla, come il Sud Africa o la Nigeria. Ci sono poi quelli che hanno ripreso a crescere infinitamente meno di quello che potrebbero, come il Brasile e l’Argentina. O quelli che se la cavano dignitosamente, come la Russia, ma rassegnati a un ruolo di monocoltura mineraria.
Qualcuno, come l’Egitto e forse il Ghana, si è risollevato. Altri, soprattutto in Africa orientale (Etiopia, Kenya, Uganda, Rwanda, Tanzania) mantengono una buona andatura ma cominciano ad avere livelli di debito che li espongono a rischi nella prossima recessione. Turchia e Messico sono borderline. Bene India, Indonesia e Vietnam, fragile come sempre il Pakistan.
E poi, ovviamente, c’è la Cina, ancora forte e ambiziosa, ma avviata verso una fase difficile e opaca in cui dovrà affrontare il restringimento dei mercati internazionali, la sfida di dovere produrre innovazione da sola, una demografia negativa e un’America diffidente e ostile.
Come si vede, è e resterà un quadro differenziato. Gli emergenti come tali non esistono più se non in Africa, l’area che suggeriamo di seguire con particolare attenzione. A fine secolo metà della popolazione mondiale sarà in Africa, così come la maggior parte delle risorse minerarie del pianeta. Se nel mondo ci sarà crescita, sarà qui.
Venendo all’immediato, il meltup azionario è rimandato un’altra volta. Quando si parla di meltup si parla del migliore dei mondi possibili ma questo, per definizione, può solo essere peggiorato. E così basta qualche delusione sugli utili di qualche banca o di qualche tecnologico per spiazzare chi si è allungato troppo nelle ultime settimane. Anche il clima di né pace né guerra tra Stati Uniti e Cina non è di particolare aiuto.
A contare sarà la crescita
Alla fine non saranno comunque questi i fattori decisivi. A contare sarà la crescita. Non occorre che sia brillante, basta che sia decente. Al resto penseranno le banche centrali, abbassando i tassi, alzando gli obiettivi d’inflazione (fra poco anche in Europa) e riprendendo il Qe. Per questo restiamo investiti.