Uno dopo l’altro, i grandi temi dirompenti che segnano questa difficile seconda metà del 2018 vengono stemperandosi. Non scompaiono, attenzione, e producono effetti innovativi anche profondi, ma senza spingersi, per il momento, alla rottura. Prendiamo Turchia e Argentina, i temi delle paure di agosto, quando si temeva una escalation pericolosa delle tensioni tra Ankara e Washington, una crisi devastante delle banche locali e un effetto a valanga su quelle europee.
Bene, la crisi è stata tamponata in entrambi i casi, il cambio della lira e del peso si è stabilizzato su livelli difendibili, una recessione non devastante (per ora) sta correggendo velocemente la distorsione più evidente delle due economie, lo sbilancio delle partite correnti. La prognosi non è più infausta ma è però ancora riservata. Se la recessione durerà un minuto di troppo, infatti, i peronisti torneranno a governare in Argentina e la Turchia (o i mercati per lei) sceglierà di imboccare di nuovo la strada della svalutazione.
Prendiamo l’Italia. Le paure di settembre e ottobre stanno rientrando rapidamente. Il governo, che sembrava deciso a mettere in discussione le basi degli equilibri europei senza temere di destabilizzarli profondamente, sta ora, a quanto pare, muovendosi in modo più prudente. Gli equilibri politici in Europa sono cambiati (e cambieranno ancora) ma più per spostamenti progressivi che per un attacco frontale.
Prendiamo la Francia, dove i Gilet jaunes a un certo punto hanno fatto pensare perfino al luglio del 1789. Bene, il movimento ha raggiunto due risultati importanti, la riduzione del prestigio e della credibilità della Macronie ai loro minimi termini da una parte e qualche risultato economico dall’altra. Ma non ha spinto verso una rottura di sistema, che non ci sarà. Ora il movimento rifluirà, ma il fuoco continuerà a covare sotto la cenere. Macron, dal canto suo, resterà presidente fino alla fine del suo mandato, ma non sarà più lui e fra tre anni uscirà di scena.
Prendiamo il Regno Unito, dove di fronte all’accordo al ribasso della May si è tornati a prospettare due scenari estremi, restare nell’Unione da una parte o andarsene sbattendo la porta e provocando una recessione europea (e ovviamente britannica) dall’altra. Bene, i fautori dell’uscita dura hanno tentato l’affondo e hanno fallito, pur mostrando più forza del previsto e pur evidenziando le debolezze e le contraddizioni della May. L’accordo della May resterà altamente impopolare per tutti, ma la rottura dirompente con l’Europa oggi appare meno probabile.
Prendiamo infine la disputa tra Stati Uniti e Cina, che a tratti ha fatto temere una escalation senza fine del confronto commerciale, una guerra calda per il primato tecnologico e strategico globale e, come risultato, una recessione altrettanto globale. Anche qui l’offensiva americana e la controffensiva cinese sembrano avere lasciato il posto alla trattativa. Alla fine ci sarà un accordo, ma sarà sulle cose più facili, quelle commerciali. Lo scontro strategico, che secondo l’interessante numero di Limes in edicola durerà e caratterizzerà il resto di questo secolo e avrà alla fine un vincitore e un vinto, continuerà e sarà duro.
Questa atmosfera di pareggio delle forze, di tensione senza rottura, di cambiamenti strutturali che lavorano in profondità senza necessariamente erompere in superficie in modo devastante è quella che si respira nei mercati. Le grandi paure di quest’anno, come abbiamo visto sopra, fanno meno paura. L’economia globale continuerà ad avere dei vuoti d’aria (li vediamo in Europa, in Giappone e in Cina e li vedremo presto negli Stati Uniti quando usciranno i dati sul quarto trimestre) ma questi vuoti non segnalano ancora la fine del ciclo, ma piuttosto un suo andamento più zoppicante e progressivamente più lento.
Non ci sono insomma motivi per grandi paure, non ci sono recessioni o crash in vista e comincia ad esserci valore su molti mercati, in particolare azionari. Ma la lunga luna di miele tra mercati e banche centrali è finita, la liquidità che cresceva e sollevava gli asset oggi scende e abbassa gli asset, sia pure di poco e lentamente. Un decennio di rialzi di bond e azioni ha portato a portafogli più esposti al rischio. Oggi, come è stato notato con perfidia, molti sono diventati pessimisti ma nessuno è short, un segnale che il mercato ha un posizionamento squilibrato. Molti vorrebbero vendere, pochi hanno voglia di comprare.
Ripetiamo, non c’è allarme sulla realtà sottostante, c’è invece un diverso atteggiamento verso di essa. Se tutti vogliono passare da un portafoglio da boom a un portafoglio da tempi normali occorreranno uno o due trimestri perché questa operazione si compia. Una volta compiuta e con le banche centrali ritornate più concilianti, i mercati potranno gradualmente riprendersi.
Una volta compreso che non ci sono catastrofi dietro l’angolo (salvo sorprese, ovviamente, ma le sorprese, per loro natura, possono anche essere positive) si può scegliere tra due strade. La prima è di mettersi in coda per uscire parzialmente dai mercati, approfittando magari dei rimbalzi, e disegnarsi un portafoglio da tempi normali perché così fan tutti. La seconda è di non provarci (a volte si esce bene ma si rientra male, e viceversa), dedicarsi ad altro e aspettare che quelli che stanno uscendo rientrino, cosa che certamente accadrà se le catastrofi, come è probabile, non ci saranno.
In questa prossima fase aggrovigliata si potrà ingannare l’attesa con il cash (che ha però molti antipatizzanti) e con due asset fino a ieri disprezzati, l’oro e i bond governativi. L’oro non farà necessariamente faville (la liquidità cala anche per lui), ma in un contesto di asset finanziari sulla difensiva e di tassi meno minacciosi attirerà un interesse maggiore rispetto a quello degli ultimi anni.
L’oro vale se ha compratori che credono nel suo valore intrinseco e in proposito, a chi dubita, giova ricordare che le banche centrali (e il pubblico) di molti paesi emergenti e della Cina all’oro ci credono molto e che, quando possono permetterselo, lo continuano ad accumulare.
I titoli governativi che preferiamo sono i Treasury e i Btp. I Btp, lo capiamo benissimo, richiedono un pizzico di coraggio e modiche quantità, ma ripagano con un ottimo rendimento. I Treasury, dal canto loro, sarebbero di tutto riposo se non ci fosse il dollaro, che è caro e potrebbe tornare a perdere per strada un po’ di valore l’anno prossimo. Per chi può, una soluzione c’è. Usando i future ci si mette al riparo dal rischio di cambio senza il carry negativo della copertura.