La fata delle aspettative

La fede sposta le montagne, dice il Vangelo. La paura mette le ali ai piedi, dice Virgilio. Aspettative e credenze, positive o negative, possono avere una forza travolgente, nel bene e nel male. Possono fare vincere o perdere le guerre, costruire imperi o distruggerli. Possono in ogni caso fare entrare la vita normale in una dimensione diversa, in una sorta di regime di eccezione in cui le regole cambiano completamente.

Tra gli economisti non c’è consenso sul ruolo pratico delle aspettative, sul come misurarle e sulla loro capacità di prevedere il futuro. Per alcuni gli indicatori di sentiment (che misurano soddisfazione e intenzioni degli operatori) anticipano l’andamento del ciclo economico, per altri coincidono con esso e per altri ancora sono addirittura ritardati. È quasi una regola, del resto, che la fiducia di imprese e consumatori sia massima al picco del ciclo economico e minima nel punto più basso di una recessione.

La confusione è ancora più grande quando si passa dalla fotografia più o meno sfocata del reale alla valutazione degli effetti di una policy e diventa massima quando dietro a una policy, come quasi sempre accade, c’è una scelta politica.

Paul Krugman polemizzò con ferocia, tra il 2011 e il 2013, contro i teorici dell’austerità espansiva. Giorno dopo giorno, nei suoi editoriali sul New York Times, satireggiò contro le due versioni politiche della teoria, quella europea vicina alle posizioni tedesche (sintetizzata allora da Alesina e Ardagna) e quella americana dei repubblicani del Congresso, espressa da Paul Ryan. La teoria sosteneva che l’austerità (tagli alla spesa pubblica nella versione americana, aumento delle tasse in quella europea) lungi dal provocare una contrazione dell’economia ne avrebbe al contrario esaltato le potenzialità grazie alle aspettative positive sul futuro che avrebbe suscitato tra gli operatori. Confortati dalla prospettiva di un minore debito pubblico nell’orizzonte di lungo periodo, i consumatori avrebbero infatti speso di più e le imprese avrebbero investito di più.

Krugman disse che quando lo stato toglie soldi all’economia è impossibile che il Pil cresca ed è praticamente certo che si contragga. Chi sosteneva il contrario si affidava secondo Krugman a un personaggio da lui creato, la Fatina delle Aspettative, ovvero alla magia delle favole.

Quest’anno però Olivier Blanchard, che su molte cose non è lontano da Krugman, ha praticamente sostenuto il contrario. Lo ha fatto nelle scorse settimane parlando dell’Italia e teorizzando la versione specchio dell’austerità espansiva, ovvero, se possiamo definirla così, la generosità recessiva. Annunciando più spesa pubblica, il governo spaventa gli operatori, che investono e consumano di meno sia per un calo della fiducia sia per gli effetti al rialzo sui tassi che questo produce. Pur escludendo conseguenze sulla solvibilità dell’Italia, che non mette in dubbio, e senza arrivare a ipotizzare un aumento dello stock di debito, ritenuto improbabile, Blanchard sostiene che con le sue scelte il governo italiano avrà meno crescita.

Il tempo dirà chi ha ragione. Krugman l’ha avuta sull’austerità espansiva, che palesemente non ha funzionato in Italia negli anni scorsi. È troppo presto invece per valutare la generosità recessiva di Blanchard. Finora non è stato ancora speso un euro per pensioni e reddito di cittadinanza e quindi non c’è ancora stata nessuna forma di generosità. Quanto alla stagnazione italiana del terzo trimestre, attribuita a caldo a un calo della fiducia idiosincratico, abbiamo scoperto in seguito che è stata parte (e nemmeno la peggiore) di una mini-recessione europea che ha visto una contrazione in Germania, Svizzera e Svezia.

Dove la Fatina delle Aspettative ha sicuramente funzionato molto bene è negli Stati Uniti, dove l’attesa e la realizzazione della riforma fiscale hanno creato un clima magico fino a due mesi fa. Il moltiplicatore fiscale è stato molto alto soprattutto nelle imprese piccole e medie, che hanno investito e assunto in un’esplosione di fiducia. Negli ultimi tempi il loro ottimismo non è calato, mentre ha subìto una evidente battuta d’arresto quello delle grandi imprese multinazionali esposte all’estero. Queste imprese, oltre a trovarsi danneggiate dalla forza del dollaro, si sono confrontate negli ultimi mesi con una mini-recessione in Europa e Giappone e con un marcato rallentamento dei paesi emergenti, Cina in primo luogo. La borsa, che rappresenta soprattutto le grandi imprese, non ha tardato a prenderne atto.

Ancora di più ha pesato sulla Borsa un’altra aspettativa, quella di banche centrali rigide, burocratiche e cieche che, una volta deciso un anno fa che le politiche monetarie andavano normalizzate, sono sembrate incapaci di riconoscere che il contesto stava cambiando rapidamente e che l’inflazione, praticamente in tutto il mondo, stava iniziando di nuovo a scendere.

Su mercati che si cominciavano a preparare a una recessione globale con tassi in ostinato rialzo è scesa però come manna dal cielo l’evidente svolta della Fed, accompagnata in Europa da una cautela crescente da parte della Bce.

Intendiamoci, per il momento tutto procede come impostato molto tempo fa. Il Quantitative tightening americano non è cambiato di una virgola, la Fed a dicembre alzerà i tassi, mentre la Bce terminerà il Quantitative easing. E tuttavia quello che sembrava un pilota automatico è stato sostituito con la guida manuale e con la decisione, da qui in avanti, di navigare a vista. Se ci saranno problemi, si lascia intendere, si interromperanno i rialzi dei tassi. Se, come sembra, l’inflazione non darà problemi, i rialzi saranno comunque meno frequenti. Come ha detto Clarida due giorni fa, l’economia è arte, oltre che scienza, e la Fed non si appoggerà in modo arrogante sui suoi modelli ma sarà umile.

Se può essere controverso il ruolo delle aspettative (o, per meglio dire, dello scommettere su aspettative future) per l’economia, molto meno lo è per i mercati finanziari. Senza togliere importanza ai dazi e all’incontro tra Trump e Xi, un eventuale fallimento delle trattative sarà assorbito la settimana prossima senza troppi danni (o quanto meno senza danni prolungati) in questo nuovo contesto. Se poi dall’incontro dovesse uscire qualcosa di buono, avremo il secondo ingrediente per il rialzo di fine anno.

Non raccomandiamo di andare corti di governativi nel breve termine. Non in America, dove crescita e inflazione stanno rallentando, e non in Italia, dove si è aperta una fase di tregua con la Commissione che può durare qualche settimana. Se si vuole approfittare del momento positivo dell’obbligazionario si vendano semmai i crediti, che Powell ha segnalato come cari (mentre sulla borsa non ha avuto da ridire).

Per le Borse europee la situazione è un po’ più complicata. Da una parte l’euro, in questo nuovo clima, potrebbe rafforzarsi, dall’altra la minaccia di Trump di introdurre dazi sulle auto straniere (cioè tedesche) è di nuovo attuale. In cambio, dipendendo da decisioni di policy, il recupero europeo, se ci sarà, potrà essere veloce. Nel medio periodo è rassicurante che le case automobilistiche si stiano organizzando ormai su tre filiere parallele (Europa, Stati Uniti, Cina) per il mondo che verrà.