Fra qualche decennio gli storici decideranno se il Quantitative easing è stato davvero utile e necessario per stabilizzare il mondo dopo la grande recessione del 2008. Quello che possiamo dire fin da oggi sul Qe è che ha progressivamente rinsecchito il dibattito intellettuale e lo ha ridotto a una forma di pensiero unico, talvolta stucchevole.
Usciti di scena, tra il 2010 e il 2012, i bond vigilantes che sostenevano che il Qe avrebbe portato, meccanicamente e immediatamente, all’iperinflazione, non solo è diventato universale il consenso verso il Qe, ma tutto il dibattito ha preso a ruotare intorno ai tempi, i modi e le quantità del Qe e nient’altro. Tutte le variabili tradizionali, crescita, inflazione, produttività, occupazione, risparmio, conti pubblici, utili hanno smesso di essere analizzate in sé e sono diventate semplici dati in input per stabilire quanto Qe ci sarebbe stato. Più Qe uguale più spazio per bond e azioni per fare festa, meno Qe meno spazio. Di nient’altro, a ben vedere, si è discusso in questi anni.
Il paradosso è che non siamo nemmeno così sicuri che il Qe abbia funzionato nell’economia reale così come ci siamo raccontati per tutto questo tempo. Il Qe ha fatto esplodere la base monetaria (il denaro creato dalle banche centrali), ma non si è tradotto in un aumento significativo dell’offerta di moneta (il denaro creato dalle banche ordinarie). Il Qe ha certamente contribuito ad abbassare i tassi, ma i tassi sono solo uno dei fattori che spingono le imprese a investire e le famiglie a spendere. Oltre ai tassi ci sono gli spiriti animali (che dipendono dal clima generale, probusiness o antibusiness), la fiscalità e, come nota da anni Richard Koo, la necessità per i privati, dopo crisi rilevanti come il 2008, di ripagare i loro debiti prima di contrarne di nuovi per investire.