Trump ha graziato l’auto tedesca per sei mesi, rinviando l’eventuale introduzione di dazi del 25 per cento a novembre, quando si insedierà la nuova Commissione europea. I mercati hanno festeggiato (comprensibilmente quelli europei) e non hanno voluto cogliere il corollario di questa decisione, ovvero il fatto che Trump si prepara a un lungo conflitto con la Cina e che le speranze ancora coltivate dalle borse di un accordo a fine giugno, quando Trump e Xi si incontreranno al G 20, sono probabilmente illusorie.
Graziare l’auto tedesca (o meglio sospendere la pena da infliggerle) non costa molto a Trump. La questione può essere benissimo trascinata fino a ridosso delle presidenziali e costituire un buon argomento di propaganda negli stati del Midwest, a partire dal Michigan, in cui è ancora concentrata la produzione delle case storiche del settore. D’altra parte, di fronte al persistere della minaccia di dazi, le case europee e giapponesi, ogni volta che progettano nuovi modelli da vendere in America decidono ormai di non produrli più a casa loro ma nel sud degli Stati Uniti, dove Trump può presentare i nuovi impianti stranieri agli elettori e consolidare il suo vantaggio nella regione.
I dazi sulle auto importate (generalmente di fascia alta) sono molto impopolari tra i compratori, che sono in prevalenza maschi bianchi ed elettori repubblicani (i democratici ricchi comprano le Tesla). Rinviando l’introduzione dei dazi Trump evita di irritare una parte importante della sua base (e i congressisti che la rappresentano) mantenendo comunque puntata l’arma contro i produttori europei che, resi docili, continuano a spostare produzione negli Stati Uniti o comunque nell’area Nafta.
Con il rinvio dei dazi l’America cerca anche di recuperare quantomeno la neutralità europea nel conflitto con la Cina, che va invece intensificandosi ogni giorno. Si chiude dunque temporaneamente un fronte per spostare divisioni sul fronte strategico.
Nei mercati è diffusa l’idea che, trattandosi di un gioco a somma negativa, il conflitto tra Cina e America finirà presto. Con questa logica, però, non riusciremmo a spiegarci i conflitti che riempiono più di metà dei manuali di storia, di qualsiasi epoca trattino. Dal Blitzkrieg alla guerra dei Cent’anni, la somma delle perdite dei contendenti è più alta dei vantaggi acquisiti del vincitore, eppure le guerre si continuano a fare o comunque a preparare.
I mercati sposano anche la logica di Trump quando questi afferma che la Cina ha da perdere molto di più dell’America e quindi si arrenderà, a condizione di salvare la faccia. Non è necessariamente un ragionamento corretto, perché spesso vince non chi ha meno da perdere ma chi è più disposto a sopportare le perdite, per grandi che siano. L’Unione Sovietica ha perso 27 milioni di uomini nella guerra contro Hitler e l’ha vinta. L’America ne ha persi 50mila nella guerra del Vietnam, è impazzita (o rinsavita) di rabbia e l’ha persa.
Negli ultimi giorni abbiamo imparato molto. In particolare, abbiamo avuto l’evidenza che la Cina è pronta a mostrare una faccia molto meno controllata e diplomatica di quella a cui ci aveva abituati. Avere ventilato la possibilità di gettare sul mercato i Treasuries delle riserve valutarie cinesi (e averlo fatto sull’ufficialissimo Quotidiano del Popolo) non è grave per le conseguenze, ma lo è per il segnale, ovvero per la disponibilità di rompere un tabù. È come dichiarare di essere disposti a usare l’arma nucleare.
Il debito americano è di 22 trilioni di dollari (quasi 25 se lo si calcola all’europea, includendo il debito locale). Le riserve valutarie cinesi, arrivate nel 2015 a 4 trilioni, sono oggi di 3 trilioni. La parte in dollari è di 2 trilioni, circa metà Treasuries e il resto agenzie semipubbliche americane.
La Cina non può vendere tutti i suoi dollari, perché in dollari sono denominati la maggior parte dei suoi contratti con l’estero. Supponendo che venda la metà dei suoi titoli in dollari, si ritroverà un trilione di dollari cash con il quale potrà comprare, per esempio, oro. A quel punto saranno i venditori di quell’oro ad avere in mano i dollari, che presto o tardi investiranno in Treasuries, chiudendo il cerchio.
Un ordine di vendita di un trilione di Treasuries tutti insieme (un’ipotesi di scuola, ovviamente) non passerebbe inosservato e farebbe ovviamente scendere il prezzo drammaticamente, creando alla Cina una perdita (raddoppiata dal fatto che l’oro da comprare salirebbe di prezzo) e al mondo un’ondata di paura. A quel punto potrebbe però intervenire la Federal Reserve. La Fed ha comprato 4 trilioni di titoli pubblici con il Quantitative easing e ora ne sta vendendo uno con il Quantitative tightening. Se questo trilione venisse usato per assorbire temporaneamente o definitivamente la vendita cinese, torneremmo alla dimensione che l’attivo della Fed aveva un anno fa. Tutto qui.
Questo esempio ci porta al concetto di Fed di guerra. Trump non è un presidente da guerra militare (è quasi uscito dalla Siria e vorrebbe andarsene dall’Afghanistan senza essere mai entrato in nessun nuovo conflitto) ma ha un disegno sempre più evidente di guerra strategica. Questa non comporta il versamento di nessuna goccia di sangue, ma implica ugualmente un ricompattamento psicologico tra società civile e stato o, almeno, all’interno delle articolazioni dello stato. La Cina ha fatto in questi giorni un enorme salto in questa direzione, dichiarando il conflitto con l’America una guerra di popolo. È nella logica delle cose che l’America vada nella stessa direzione.
Non bisogna pensare che poiché Trump è divisivo, mezza America e una buona parte del deep state non lo seguiranno mai sulla strada della guerra strategica. L’America è pronta a lacerarsi di nuovo violentemente sull’aborto e su un’infinità di altre questioni, ma sulla Cina il ricompattamento è impressionante e va dal senatore Schumer, il più autorevole democratico del Congresso, al Pentagono (finché non c’è da sparare) e al deep state tutto.
E la Fed? Il board della Fed è per metà democratico e per l’altra metà repubblicana è comunque tiepidissimo verso Trump, per non parlare dello spirito di corpo che unisce tutti nel chiudersi a riccio verso la Casa Bianca. Ma la storia di tutte le guerre, fredde o calde, mostra che le banche centrali, nate da una costola del Tesoro del Principe, ufficio del Tesoro tornano a essere in tempo di guerra. E così come il Tesoro precetta la banca centrale, così questa precetta la curva dei rendimenti, il tasso reale e la borsa, in una parola i mercati.
Il rialzo dei tassi di dicembre è stato il canto del cigno della Fed. Da qui in avanti, se persiste lo scontro con la Cina, alzare i tassi sarà antipatriottico e abbassarli sarà un dovere. I tassi nominali e reali più bassi daranno una forte rete di protezione alle borse ed è per questo che restiamo investiti anche in questa fase di turbolenza.
Per il resto, segnaliamo che con l’entrata in lizza del sindaco de Blasio sono ora 23 i candidati democratici alla Casa Bianca. Di questi uno solo è centrista, Joe Biden. I mercati sono tranquilli perché Biden è in testa ai sondaggi per le primarie con il 30 per cento delle preferenze. Non considerano che quasi tutti gli altri, man mano si ritireranno dalla competizione, faranno convergere i loro voti su un rivale di Biden, un radicale che a quel punto avrà a disposizione, a oggi, il 70 per cento dei consensi.
Non è un mondo in cui annoiarsi.