La lotta all’inquinamento passa dall’industria finanziaria

L’Europa ha ancora molta strada da percorrere per raggiungere un modello di sviluppo economico più attento all’ambiente e alla sostenibilità. In particolare, l’Unione si è posta tre obiettivi ambiziosi in tema di cambiamento climatico entro il 2030: la riduzione del 40% delle emissioni di gas serra rispetto agli anni Novanta, almeno il 27% dei consumi energetici derivanti da fonti rinnovabili e non meno del 30% di risparmio di energia in situazioni normali

Secondo la Banca europea per gli investimenti, per centrare i target servono 270 miliardi di euro in più ogni anno rispetto a quelli già stanziati per intervenire nei settori dell’energia, dell’acqua, dei rifiuti e dei trasporti.

Fonte: BEI

Il Piano di azione della Commissione europea
Con oltre 100 mila miliardi di euro di asset, il settore finanziario può dare un contributo significativo. Va in questa direzione la pubblicazione, lo scorso 8 marzo, dell’Action Plan della Commissione europea, che cerca di indirizzare alcuni aspetti fondamentali tra cui l’affidabilità delle informazioni, la gestione dei rischi degli investimenti legati al clima, all’ambiente e più in generale, alla sostenibilità, l’inclusione dei criteri ESG nei doveri fiduciari degli istituzionali e l’incremento della trasparenza da parte delle imprese sulle attività di responsabilità sociale.

L’inquinamento e il surriscaldamento del globo sono tra le sfide più urgenti e le centrali a carbone ne rappresentano una delle principali cause. In Europa, secondo il movimento Europe beyond coal, ci sono ancora 287 impianti di questo tipo e i più pericolosi sono in Germania e Polonia. Sempre più governi, tuttavia, hanno detto di volerli chiudere entro i prossimi anni. L’Italia ha indicato come obiettivo il 2025, mentre la Francia, con il presidente Emmanuel Macron vorrebbe anticipare al 2021-22.

Nel corso del 2017, hanno annunciato la transizione verso un business coal freeanche diverse imprese, energetiche e finanziarie, tra cui l’italiana Enel, che ha dichiarato nell’assemblea annuale che entro 10-15 anni non avrà più impianti di questo tipo. Più recentemente, Assicurazioni Generali ha annunciato il disinvestimento dal settore del carbone per 2 miliardi di euro, con l’obiettivo di azzerarne la presenza nei propri portafogli. Finora, secondo i dati di Go Fossil Free è la prima impresa in Italia ad intraprendere un’azione simile, perché in passato lo avevano fatto solo organizzazioni no-profit.

Nel mondo, si stima che il cosiddetto divesting da parte delle istituzioni di varia natura ammonti a circa 6 mila miliardi di dollari, di cui il 28% fa capo a organizzazioni religiose e il 19% a fondazioni filantropiche. Seguono i governi, le università, i fondi pensione e, verso il fondo della classifica, le imprese for profit (3%, fonte: Go Fossil Free, dati disponibili al 28 febbraio 2018).

Cambiano i consumi energetici
Se nel breve, saranno ancora i combustibili fossili a coprire gran parte della domanda mondiale di energia, a lungo andare la situazione è destinata a cambiare radicalmente. La transizione verso le rinnovabili non è un fenomeno degli ultimi anni: dal 1990 ad oggi, il consumo delle cosiddette energie pulite è cresciuto del 1.200% contro il 78% del gas e il 37% del petrolio.

Conto salato per le compagnie petrolifere
Se è troppo presto per considerare chiusa l’era del petrolio, sicuramente le nuove normative costeranno care all’industria del greggio e del gas, in termini di contrazione dei profitti e aumento dei costi del capitale. Secondo gli analisti di Sustainalytics, “le aziende più a rischio sono quelle con i più alti costi medi di produzione, o coinvolte in progetti sui combustibili fossili, inclusi quelli di sabbie bituminose in Canada, le trivellazioni nel mar Artico e alcuni impianti per il gas naturale liquefatto. A soffrire sarebbero anche le industrie che non stanno diversificando su fonti rinnovabili”.

La Task-force per il clima
Su questi temi, gli investitori sono sempre più sensibili e chiedono trasparenza alle aziende. Come è emerso durante un SRI Breakfast organizzato recentemente dal Forum per la finanza sostenibile a Milano, un utile strumento è rappresentato dalle raccomandazioni della Task-force for climate-related financial discloscure (TCFD), i cui membri sono stati scelti dal Financial stability board tra i produttori ed utilizzatori della reportistica sui rischi climatici in diversi ambiti economici e finanziari (l’Eni è l’unica impresa italiana presente).

Le raccomandazioni, pubblicate a fine giugno 2017, sono volontarie, formulate in modo da tenere conto delle normative in materia e coprono quattro aree: governance, strategia, gestione del rischio, misurazioni e obiettivi. Una delle indicazioni chiave si focalizza sulla resilienza delle imprese di fronte a differenti scenari di rischi e opportunità derivanti dal cambiamento climatico. Le indicazioni del TCFD hanno già ricevuto il supporto di oltre 100 organizzazioni a livello mondiale e sono utili sia per gli investitori sia per le imprese in cui investono. “Le società che riconoscono e fanno disclosure sulle strategie per gestire i rischi reputazionali e quelli derivanti dai nuovi obblighi normativi sono più preparate a competere in uno scenario low-carbon”, si legge in una nota di Sustainalytics.

Chi è già pronto
Nel settore petrolifero, le dieci più grandi compagnie al mondo hanno una diversa capacità di gestione dei rischi legati ai gas serra (GHG). Tra i leader, secondo Sustainalytics, ci sono Royal Dutch Shell, Total, Eni e Chevron, mentre tra i peggiori la cinese Sinopec e la russa Rosneft.

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