Tutti conosciamo la macchina di Goldberg, anche se magari non sappiamo che si chiama così. Basta avere avuto un’infanzia normale e avere sfogliato qualche volta i fumetti della Disney o visto in televisione i Looney Tunes della Warner Bros, per essersi imbattuti in uno di quei buffi e barocchi congegni biomeccanici che, con innumerevoli leve e carrucole azionate dal becco di un volatile o da un cane che corre su un nastro, arrivano finalmente a svolgere con grande fatica compiti ridicolmente semplici come accendere la luce o soffiare il naso dell’utilizzatore finale. Si tratta di piccoli capolavori di ingegneria ludica che sembrano discendere direttamente dalle macchine di scena del teatro barocco e dagli automi che dilettavano le annoiate corti europee del Settecento.
Il loro ideatore, Rueben Goldberg (1883-1970), prima ancora che disegnatore appassionato di fumetti e di cartoni animati era del resto ingegnere e inventore. E in suo onore si cimentano ancora oggi ogni anno i politecnici di tutto il mondo in concorsi per progetti follemente complicati per schiacciare una noce o portare il bicchiere alla bocca senza usare le mani. Alzare l’inflazione e la domanda senza usare (e sporcare) le mani è stato il compito di quella gigantesca macchina di Goldberg che abbiamo chiamato Quantitative easing.
Comprando titoli sul mercato secondario (sul primario ci si sporcherebbero le mani) la banca centrale sostiene il prezzo di questi titoli (ne abbassa cioè il rendimento) e crea liquidità nelle banche che li vendono, dando alle banche la possibilità di creare a loro volta denaro bancario. I tassi più bassi dovrebbero stimolare la domanda di questo denaro da parte delle imprese che vogliono riprendere a investire. Se poi le imprese non hanno comunque voglia di investire, i tassi bassi sono utili per un’altra via, perché gonfiano il prezzo delle azioni e dei bond, facendo salire la ricchezza di quelli che li possiedono. Costoro, si spera, saranno indotti a consumare almeno una parte delle loro plusvalenze, spostando finalmente i soldi dal circuito finanziario a quello economico.
Che fatica. Certo, con il Qe nessuno va all’inferno, perché formalmente non si stampa moneta per finanziare il Tesoro e anche perché i titoli non sono acquistati dalla banca centrale a titolo definitivo (e quindi in pratica cancellati) ma potranno un giorno essere rivenduti (cosa che sta già avvenendo negli Stati Uniti ma che non avverrà mai in Giappone e in Europa). Lo svantaggio del Qe, come di tutte le macchine di Goldberg, è l’inefficienza. È come un acquedotto che cattura alla fonte 100 litri, ne perde 90 per strada e ne consegna ai destinatari solo 10. O magari ne consegna in certi casi anche 90, ma a rilascio lento, con solo un filo d’acqua che esce dal rubinetto.
Il denaro che le banche potrebbero creare non viene richiesto, chi ha plusvalenze su azioni e bond non le spende e così via, da un intoppo all’altro. Ma non basta, perché i tassi artificiosamente bassi provocano alla lunga un assopimento progressivo del sistema, con perdita di produttività e allocazione subottimale del capitale. In questi casi capita sempre qualcuno che ha l’intuizione. Che succederebbe se, invece di costruire una grande macchina di Goldberg che ci pulisce la bocca con un tovagliolo ogni due minuti, usassimo le mani e facessimo tutto da soli? Non faremmo prima? Non sarebbe tutto più semplice? E non sarebbe più divertente? È come nella farmaceutica. Ogni volta che l’industria lancia un analgesico a rilascio lento, arriva qualcuno che frantuma la pastiglia e la rende solubile e iniettabile in vena con effetto immediato e quindi moltiplicato. Ora sembra sia possibile farlo anche con il vino.
La via endovenosa al rilancio di inflazione e domanda è quella fiscale. La vera uscita reflazionistica dalla Grande Depressione fu la seconda guerra mondiale con le enormi spese che generò. E l’inflazione degli anni Settanta ebbe il petrolio come fiammifero, ma il lago sottostante di combustibile fu creato con le spese per la guerra del Vietnam e per la Great Society di Johnson nei tardi anni Sessanta. La novità, questa volta, sarà quella di accompagnare la reflazione fiscale con una politica monetaria moderatamente restrittiva. È quello che vediamo sotto i nostri occhi negli Stati Uniti.
Come nota Kevin Muir, quello che fanno gli Stati Uniti per primi, e che all’inizio sembra pericolosamente eterodosso, finiscono per farlo tutti quanti nel giro di qualche anno. Gli effetti della via fiscale (gli Stati Uniti avranno l’anno prossimo un disavanzo del 6 per cento abbondante) sono sotto gli occhi di tutti. Crescita raddoppiata, produttività triplicata, inflazione sopra il due per cento ma non fuori controllo. In prospettiva avremo anche, se si proseguirà su questa strada, una crescita più veloce dei salari rispetto ai profitti e quindi, per questa, via, una riduzione delle diseguaglianze. Alla fine, ma solo alla fine, potremmo vedere stagflazione.
Prima della stagflazione bisognerà però avere esaurito tutte le risorse inutilizzate e avere saccheggiato l’ampia quota di popolazione che oggi non è nel mercato del lavoro ma che potrebbe un giorno entrarci, un processo che richiederà parecchi anni e che potrà essere ulteriormente allungato se la tecnologia farà crescere la produttività più di quanto non abbia fatto in questi ultimi tempi.
Il rialzo dei tassi farà ovviamente male ai bond, ma farà molto meno male se sarà lento, come probabilmente sarà. Farà male anche all’azionario, naturalmente, perché comprimerà i multipli. L’equity potrà però compensare almeno in parte questo effetto negativo con una maggiore crescita (più del fatturato che degli utili). Perfino nelle condizioni estremamente avverse degli anni Settanta, l’azionario riuscì alla fine a mantenersi a galla e a chiudere il decennio invariato in termini reali. Italia, Francia e Spagna stanno correggendo al rialzo i disavanzi previsti per l’anno prossimo.
La Cina si muoverà nella stessa direzione fiscale pur con una politica monetaria espansiva. A predicare i tassi bassi e l’austerità fiscale è rimasta la Germania. Attenzione, però, due avvertenze importanti. La prima è che tra fine 2019 e primo semestre 2020 l’effetto shock della riforma fiscale americana verrà meno e si trasformerà temporaneamente in un down. Potremo allora vedere, per qualche mese, il contrario di quello che abbiamo appena detto. I bond, cioè, andranno meglio dell’azionario. La seconda avvertenza è che, nel caso di vittoria della Warren (o di un altro democratico radicale) alle presidenziali del 2020, lo scenario di stagflazione si avvicinerà bruscamente (più tasse, deregulation ecc.). Se però Trump riuscirà a farsi rieleggere o se prevarrà un democratico centrista alla Bloomberg, il processo di reflazione proseguirà per tutta la prima metà del decennio e porterà i tassi a livelli più alti di quelli che vediamo oggi.