Dieci anni dopo la Grande Recessione del 2008-2009 l’economia globale va bene e nella regione guida, gli Stati Uniti, va benissimo. Tutti crescono, l’inflazione è al giusto livello, le banche sono ricapitalizzate, non ci sono da tempo fallimenti sovrani, bancari o corporate di rilievo sistemico e un certo numero di borse sono ai massimi storici.
Di fronte a questi indubbi successi nella gestione del ciclo economico registriamo due insuccessi. Il primo è sul fronte degli squilibri strutturali, che non si sono ridotti e si sono in certi casi aggravati. Parliamo di squilibri demografici (sui quali nel breve si può fare poco), di squilibri cronici delle partite correnti generati da mercantilismo e che creano protezionismo, di stock di debito ai massimi storici in relazione al Pil globale.
Il secondo insuccesso, che tocca direttamente le classi dirigenti, è la loro perdita di consenso, e quindi di controllo. Le crisi dei vent’anni precedenti il 2008 erano state attenuate dalla globalizzazione, quella del 2008 è stata esasperata dalla globalizzazione. Ne sono derivate in Occidente una radicalizzazione dello scontro politico che mette in discussione assetti e principi che sembravano intoccabili e in Cina una svolta autoritaria sempre più soffocante.
È proprio questo secondo insuccesso che induce a elaborare una risposta diversa alla prossima recessione. La risposta monetaria, che ha caratterizzato l’uscita da tutte le crisi degli ultimi quarant’anni, avrà ancora un ruolo, ma avrà modalità diverse e si salderà, finanziandola, con la risposta fiscale. Come vedremo, le conseguenze per gli asset finanziari, azioni e obbligazioni, saranno rilevanti e non necessariamente entusiasmanti. Prima di procedere verso il futuro ritorniamo al 21 novembre 2002, quando Bernanke, davanti al National Economists Club di Washington, pronuncia il suo discorso seminale e visionario intitolato Deflation, Making Sure It Doesn’t Happen Here.
Si tratta in sostanza di un elenco appassionato e impressionante delle armi non convenzionali che una banca centrale sicura di sé ha a disposizione una volta esaurita quella convenzionale dei tassi (che allora si pensava comunemente non potessero scendere sotto zero). Di questo lungo elenco, nella risposta alla crisi del 2008, si è usata solo la prima parte, quella intellettualmente meno in conflitto con l’ortodossia e i tabù del nostro tempo. Si è fatta esplodere la base monetaria con l’acquisto di asset finanziari, il Quantitative Easing, con l’obiettivo di amplificare l’effetto dei tassi a zero. In questo modo si sono tenuti in vita molti debitori di scarsa qualità, zombificandoli da una parte ma prevenendo rovinose crisi bancarie dall’altra, mentre la repressione finanziaria determinata da tassi a zero o negativi ha ingegnerizzato una spettacolare esplosione del valore dei bond e dell’equity. Si è così generata inflazione negli asset finanziari ma si è fatta molta fatica, per anni e anni, a ricreare inflazione sugli asset reali.
La risposta fiscale espansiva al 2008, dal canto suo, c’è stata ma è stata relativamente breve e limitata, tramutandosi in Europa già nel 2010 nella follia dell’austerità. Il risultato complessivo della risposta monetaria e fiscale è stata una ripresa debole e faticosa e un riassorbimento molto lento dell’enorme disoccupazione provocata dalla crisi. Il permanere della disoccupazione, a sua volta, ha provocato compressione salariale, che a sua volta ha reso meno necessari investimenti in tecnologia e ridotto a zero, fino a pochi mesi fa, la crescita della produttività.
Compressione salariale, disoccupazione e precarizzazione, aggravate dagli effetti della globalizzazione, hanno a loro volta prodotto malessere sociale e rivolta politica. Sulla base di queste considerazioni crediamo che la risposta alla prossima recessione sposterà l’accento dalla prima alla seconda parte del discorso di Bernanke del 2002. Ne traiamo conferma da un intervento di Olivier Blanchard in un recente seminario della Fed di Boston. Perché la prossima volta, si è chiesto Blanchard, invece di acquistare asset finanziari non cerchiamo di fare risalire l’inflazione degli asset reali comprando, per l’appunto, asset reali? E perché non finanziare con creazione di moneta appositamente dedicata un incremento della spesa pubblica pari all’uno per cento del Pil, che creerebbe in 5 anni un aumento dell’inflazione del 10 per cento complessivo, ovvero tassi reali di 2 punti percentuali più bassi?
In pratica, la prossima volta, le banche centrali potrebbero comprare (direttamente o finanziando il Tesoro) meno bond e più petrolio, acciaio, case, auto e tutto quello che si riuscirà a cartolarizzare. Contemporaneamente si creerebbe helicopter money finanziando con moneta, e non con debito, nuova spesa pubblica. Con più inflazione e quindi con tassi nominali più alti rispetto all’ultima crisi, i bond si apprezzerebbero meno e non sarebbero più l’investimento di elezione. Di conseguenza anche i multipli di borsa non si espanderebbero come hanno fatto dal 1983 a oggi.
Il meccanismo infernale che è stato alla base delle bolle di borsa dei quarant’anni passati e dei crash che le hanno drammaticamente interrotte verrebbe almeno in parte disattivato. Proviamo a pensare cosa sarebbe successo se si fosse scelta questa strada nei dieci anni passati. L’inflazione sarebbe risalita più in fretta, la disoccupazione sarebbe stata riassorbita prima, le borse sarebbero salite meno e il malessere sociale e politico sarebbe più contenuto. Se così sarà, quella che abbiamo vissuto sugli asset finanziari dal 2009 è forse l’ultima grande bolla sistemica per un lungo periodo di tempo. Questa è davvero l’ultima volta che le banche centrali dedicano un’attenzione così ampia e concentrata su bond e azioni nella speranza che in questo modo si riattivi l’economia reale.
La prossima volta si punterà direttamente all’economia reale. Le istanze populiste di spesa e reflazione, che oggi mettono sotto pressione l’establishment, verranno in qualche modo riassorbite nel mainstream. Nel frattempo godiamoci con ragionevole prudenza questa ultima grande bolla, che poi tanto bolla non è se si considera l’esplosione di margini e utili, certamente irripetibile, che ha caratterizzato questi anni passati. Che il ciclo espansivo in corso abbia ancora strada da percorrere (superata una pausa nella crescita e un moderato bear market tra il 2019 e il 2020) lo ricaviamo da due elementi.
Il primo è che la ripresa della produttività, come abbiamo visto ancora negli ultimi giorni, rende possibile assorbire l’inflazione salariale ed evitare che questa si scarichi sull’inflazione finale. Il secondo è che tutte le grandi banche centrali continuano a fare capire di volere restare leggermente dietro la curva in modo da continuare a reflazionare il sistema lasciando correre la crescita. Si tratta di costruire per questa via un buffer di inflazione da potere spendere per combattere la deflazione che la prossima recessione si porterà con sé.
Venendo all’immediato proponiamo tre spunti. Il primo è un dollaro più debole (minori timori di inflazione) e un euro più forte (accordo con Trump, cui non bastano le auto). Il secondo è una borsa americana su nuovi massimi fino alle elezioni (ogni volta che prova a scendere, fateci caso, la Casa Bianca fa filtrare buone notizie sulle trattative commerciali con questo o quel paese e il mercato si riprende). Il terzo è che le borse europee, come al solito, dovranno dividere con l’euro gli spazi di rialzo da qui a fine anno.