Nel mondo del trading algoritmico un minuto è già lungo termine. Per il trader umano il breve termine finisce il venerdì sera e la settimana successiva è avvolta nella nebbia, perché nel fine settimana tutto può succedere. L’investitore medio è uomo senza principi, porta subito a casa un piccolo profitto se questo è veloce e gratificante e trasforma in scelta strategica tutto quello su cui perde. L’investitore istituzionale, dal canto suo, è mentalmente più strutturato ma sa che la lungimiranza (richiesta dal buon senso e dalle autorità di vigilanza, che lo vorrebbero orientato su orizzonti lunghi) mal si concilia con l’abitudine di alcuni clienti di spostare i loro soldi da un gestore all’altro a seconda dei risultati dell’ultimo trimestre o mese. E quindi guai a essere in anticipo, meglio essere in ritardo. Chi nel 2006 avesse esibito un portafoglio prudente (privo di azioni e pieno di bond sicuri a lungo termine) avrebbe perso almeno la metà dei clienti (che restando investiti in azioni avrebbero poi perso più della metà dei loro soldi due anni dopo). L’investitore istituzionale passa le sue giornate incollato ai monitor e la notte dorme con un occhio aperto che segue incessantemente i mercati asiatici. La sua agilità sembrerebbe infinita, ma lo è in realtà quando è meno necessaria. Nei momenti decisivi, al picco o al minimo di un ciclo, le sue mani sono legate dal Value at Risk, quel sistema di misurazione del rischio che impone di ridurre il portafoglio quando la volatilità è massima (tipicamente agli estremi del ciclo). Va poi ricordato che, mentre comprare bene ai minimi è relativamente semplice (gli spread tra denaro e lettera sono ampi, ma i venditori si trovano), vendere bene ai massimi è questione di fortuna. Se si è in ritardo di un attimo in un mercato che sta iniziando a crollare e si ha tanto da vendere perché si è grossi si rischia seriamente di non trovare compratori e di fare scendere ulteriormente i prezzi di quello di cui ci si vuole disfare.
Per questo, soprattutto per chi maneggia tanti soldi o ha investimenti poco liquidi, ha perfettamente senso chiedersi oggi se sia meglio mettere a fuoco la probabile ripresa dei mercati in questo 2018 (con possibile estensione al primo trimestre del 2019) o se sia invece opportuno sintonizzarsi sulle onde lunghe e prepararsi per tempo al prossimo bear market, che potrebbe arrivare più avanti, forse già nel 2019 o nel 2020. Meglio rischiare di essere miopi o rischiare di essere presbiti? Prima di provare a rispondere dobbiamo però argomentare le due ipotesi, quella positiva per quest’anno e quella negativa per il medio termine. Cominciamo da questo 2018, cui è toccato vivere in ritardo la correzione fisiologica autunnale che non c’è stata nel 2017 perché bloccata dalle aspettative sulla riforma fiscale americana. Bene, la riforma l’abbiamo avuta ed è stata anche migliore delle attese. Ma il festeggiamento è durato un anno e ha portato a un apprezzamento del 25 per cento della borsa di New York, una bellissima ciliegia su otto anni di rialzo azionario. Il culmine dei festeggiamenti ha coinciso con un’ondata globale di sorprese positive dall’economia reale in una fase di inflazione ancora innocente. Dopo un 2017 trionfale e privo di volatilità una correzione ci sarebbe stata comunque. Se a questo aggiungiamo la ripresa dell’inflazione, il rialzo dei tassi e una serie di delusioni macro un po’ dappertutto (inevitabili dal momento che si partiva da ipotesi di perfezione) la correzione ha conquistato piena legittimità. Ma non basta, perché nelle ultime settimane si sono presentate nuove complicazioni. Parliamo dell’aumento del disavanzo pubblico americano, del disincanto sulla tecnologia come motore di crescita perpetua, dei venti di guerra commerciale e dei venti di guerra vera e propria in Medio Oriente. Di fronte a questi notevoli ostacoli i mercati si sono in realtà comportati piuttosto bene e non manca chi dice che la correzione partita a fine gennaio ha ancora bisogno di un’ondata di paura più seria di quelle che abbiamo visto fin qui perché si possa finalmente parlare di mercati ripuliti e pronti a riprendersi.
Vedremo se ci sarà davvero bisogno di questa ultima scrollata, ma al momento possiamo già dire che molte delle paure che hanno percorso la correzione si sono rivelate eccessive e premature. L’inflazione è certamente in crescita, ma non alla velocità di gennaio (spinta dall’euforia seguita al taglio delle tasse). I tassi a lungo, dopo la paure iniziali, sono addirittura scesi. La riluttanza del Congresso ad attaccare la tecnologia e la buona performance di Zuckerberg hanno allontanato il timore immediato di misure penalizzanti per il settore. Le misure distensive cinesi sul fronte commerciale hanno fatto pensare a uno scontro su due livelli, il primo, molto aggressivo, per l’opinione pubblica americana e cinese e il secondo, concreto e operativo, nei negoziati dietro le quinte. Resta la Siria, dove si parte da un casus belli, un attacco chimico pochi giorni prima del ritiro americano, cui si preannuncia una risposta dove non sono chiari gli obiettivi politici (Assad? Russia? Iran?). Probabilmente si tratterà di una risposta forte ma circoscritta, ma non si possono escludere del tutto complicazioni. In ogni caso, per porre davvero fine alla correzione i mercati aspetteranno la conclusione della vicenda. Avendo scontato la perfezione a gennaio e una serie sorprendentemente numerosa di problemi in questa correzione i mercati saranno pronti per un atteggiamento più equilibrato e per una cauta e lenta ripresa durante l’estate e l’autunno. Le elezioni di novembre in America saranno un passaggio delicato, ma il nuovo Congresso si insedierà a fine gennaio e il 2018, se gli utili confermeranno le attese, si potrà concludere con segno positivo. Più avanti, tuttavia, una serie di nodi strutturali comincerà a venire al pettine. Anche se l’intenzione delle banche centrali è di tollerare una certa quantità di inflazione i tassi continueranno a salire. Si cercherà tutti quanti di restare dietro la curva e di mantenere i tassi reali vicini a zero, ma la possibilità di un rialzo di troppo diventerà sempre più concreta. La liquidità, dal canto suo, continuerà a calare e per i titoli di debito ci saranno più offerta e meno domanda. Va poi tenuto d’occhio il consumatore americano, che non può spendere molto di più a meno di non andare a risparmio negativo, mentre l’Europa dovrà continuare a digerire il rialzo dell’euro e la Cina completerà il suo lavoro di pulizia dopo la grande spinta alla spesa nel 2017 e prima di quella ancora più grande che si preannuncia per il 2021, centenario del partito. Si noti che un bear market non ha sempre bisogno di una recessione o di un incidente finanziario. Possono essere sufficienti, se si viene da altezze elevate, una crescita debole e la prospettiva di utili piatti da scontare con tassi in continua crescita, soprattutto se in un ambiente di liquidità calante. Godiamoci dunque, augurandoci che ci sia, il recupero che si preannuncia per i prossimi mesi, ma cominciamo a entrare in un ordine di idee per cui si vende su rialzo più di quanto non si compri su ribasso, dando la precedenza, quando vendiamo, ai titoli meno liquidi. A meno, ovviamente, di non decidere di non preoccuparsi per il bear market che verrà (e che non sarà una ripetizione del 2008) e guardare davvero al lungo termine.
A cura di Alessandro Fugnoli, Kairos