Dal 2012 al 2017 è cresciuta ad un ritmo medio del 9,4% annuo e, negli ultimi dieci anni, il suo PIL pro-capite è cresciuto del 53%. Non si tratta né della Cina né di un’economia emergente: parliamo dell’Irlanda, la «tigre celtica» che – dopo la grande crisi del 2011 – sembra essere decisamente tornata a ruggire. Questi numeri sorprendenti, però, meritano di essere letti con grande attenzione, per evitare conclusioni affrettate.
Per comprendere l’economia irlandese è bene fare un passo indietro e ritornare agli anni ‘90, quando l’introduzione di un regime fiscale favorevole per le società favorì l’afflusso di investimenti esteri e diede un rapido impulso alla crescita. L’eccesso di ottimismo che a inizio secolo caratterizzò molti settori a livello mondiale in Irlanda fu particolarmente accentuato e, allo scoppio della bolla dei mutui sub-prime, l’economia entrò in una profonda crisi, resa ancora più grave dal crollo dei prezzi immobiliari e dall’elevato livello di indebitamento privato.
L’intervento dello stato e, quando nel 2011 lo spread superò quota 1.000 punti base, quello della cosiddetta Troika (UE, FMI e BCE) salvarono il sistema bancario trasferendo di fatto una parte significativa dell’indebitamento sulle spalle del settore pubblico.
Dopo quella fase turbolenta, l’economia è ora tornata a crescere velocemente, il debito pubblico è passato dal 120% al 68% del PIL e lo spread è oggi appena intorno ai 50 punti base. Così come a inizio secolo, il principale motore della crescita rimangono però i vantaggi fiscali concessi alle multinazionali, specialmente statunitensi, che «trasferiscono» in Irlanda una parte significativa dei loro utili. I dati pubblicati quindi, per quanto calcolati in maniera formalmente corretta, sono in qualche modo «distorti» da manovre contabili e fiscali e, mai come in questo caso, si può dire che il PIL sia una misura bugiarda dell’effettiva attività economica.
Per queste ragioni, negli ultimi anni, la Banca centrale irlandese ha sviluppato un particolare indice in grado di eliminare (secondo Eurostat per la verità solo in parte) le distorsioni legate alla globalizzazione. Per quanto forse ancora sopravvalutati rispetto alla «realtà», i dati del cosiddetto «Reddito Nazionale Lordo Modificato» (o «Modified Gross National Income», GNI) danno quindi un’immagine ridimensionata ma più affidabile del «miracolo» irlandese.
La dimensione reale dell’economia sarebbe appena il 60% di quella ufficiale e, tra il 2009 e il 2017, la crescita media annua del GNI è stata del 3,3%: un ritmo sicuramente ottimo, ma dimezzato rispetto ai dati ufficiali. Allo stesso modo, mentre il PIL pro-capite è il quinto al mondo ed è quasi doppio rispetto a quello medio europeo, il reddito nazionale modificato è vicino a quello tedesco e «solo» del 20% più alto rispetto alla media continentale. Un dato finanziario e un dato reale confermano come l’andamento dell’economia irlandese non si discosti in concreto troppo da quello degli altri paesi europei e come il paese abbia problemi analoghi a quelli del resto dell’area.
La performance della borsa irlandese negli ultimi cinque anni è poco superiore a quella dell’EuroStoxx (6% annuo contro 5%) e molto più bassa rispetto a quella degli indici di Wall Street, mentre la percentuale di cittadini a rischio di povertà ed esclusione sociale (22,7%) è vicina a quella media europea (22,4%) e superiore rispetto a quella di paesi come Francia e Germania.
Insomma, l’andamento recente dell’economia irlandese è in generale soddisfacente. Gli anni bui della grande crisi sono alle spalle, la crescita c’è e – comunque la si calcoli – è sostenuta; la disoccupazione in pochi anni è passata dal 15% al 5,4% e la buona crescita dei consumi (+3,7% negli ultimi dodici mesi) è un ulteriore indicatore positivo. Le politiche di apertura dell’economia e la bassa imposizione hanno sicuramente avuto molti effetti positivi. Tuttavia, il caso irlandese ci ricorda quanto sia sempre importante leggere con attenzione tutti i dati, perché (come in questo caso) la realtà può essere meno rosea di quanto alcuni numeri non dicano. E questo, nel caso dell’Irlanda, è vero soprattutto per quanto riguarda la misura dell’indebitamento. Quello del settore pubblico, se misurato in rapporto al GNI*, supera abbondantemente il 100%, mentre quello del settore privato rimane tra i più alti al mondo (172% del reddito nazionale). L’attuale basso spread tra titoli governativi irlandesi e tedeschi forse «dimentica» alcune distorsioni nei dati ufficiali.
A cura di ALFA Consulenza Finanziaria