Questioni di fallibilità

Bandiera UE

Indebolita dal vento liberale che soffiava sull’Europa, dalla perdita di buona parte dello Stato Pontificio pochi anni prima e dalle confische dei beni ecclesiastici da parte di vari governi, la Chiesa di Pio IX cercò un rilancio convocando un concilio ecumenico nel 1868. Il Vaticano Primo, tra le altre questioni, fu chiamato a discutere della proposta di proclamare solennemente l’infallibilità del romano pontefice.

Il dibattito fu intenso e di alto livello. La maggior parte dei padri conciliari era favorevole al nuovo dogma, ma un quarto di loro, esponenti delle chiese dell’Europa settentrionale, fece resistenza fino all’ultimo e riuscì a limitare l’ambito dell’infallibilità alle sole questioni teologiche e morali proclamate ex cathedra.

Tra gli argomenti degli oppositori vi furono i precedenti storici dei papi Liberio (IV secolo) e Onorio (VII secolo), l’uno sospetto di eresia e l’altro dichiarato ufficialmente eretico da un concilio trent’anni dopo la sua morte.

Benché separati da tre secoli, i due casi avevano tra loro molte somiglianze. C’era da una parte un imperatore che aveva bisogno di non alienarsi quelle parti dell’impero che avevano abbracciato il cristianesimo con cristologie differenti da quella nicena (l’arianesimo nel primo caso, il monofisismo nel secondo). C’era dall’altra un pontefice romano che cercava un compromesso tra l’ortodossia e la volontà di venire incontro alle esigenze imperiali. I due papi tentarono dunque di rendere più generiche e ambigue le formulazioni di Nicea, ma il risultato fu solo quello di alienarsi l’appoggio di entrambe le parti in causa. Liberio, che aveva a lungo cercato di resistere alle richieste di revisione e che alla fine capitolò, fu comunque sequestrato dall’imperatore furibondo che lo fece sfilare nudo per le strade di Costantinopoli. Onorio, come abbiamo detto, fu ufficialmente dichiarato eretico dai suoi dopo la sua morte e subì la damnatio memoriae.

Con due papi eretici, si chiedevano i padri conciliari mentre i bersaglieri si preparavano alla breccia di Porta Pia e alla conquista di Roma, che limiti dobbiamo porre all’infallibilità del romano pontefice?

E con i discussi comportamenti della Fed e della Bce nell’ultimo anno, che idea dobbiamo avere della fallibilità e dell’indipendenza delle nostre banche centrali?

Non è questa la sede per esaminare la questione dell’indipendenza, ovvero il dualismo tra la potestas imperiale (Trump che bullizza Powell) e l’auctoritas della Chiesa di Liberio o delle banche centrali di oggi. Come è stato notato, il dualismo tra potestas e auctoritas, che tanta parte ha avuto nell’evoluzione storica e ideologica dell’Occidente, si ferma sulle rive della Vistola, del Danubio e del Potomac. Il resto del mondo ne ha fatto e continua a farne a meno. L’imperatore bizantino e lo zar di tutte le Russie sono allo stesso tempo capi civili e religiosi. Il governatore della banca centrale cinese codecide con confuciana armonia con il rappresentante del partito dentro la banca stessa. I due hanno la stessa dignità, potestas e auctoritas sono indistinguibili e questo, per inciso, non ha mai condotto la Cina a esiti inflazionistici.

Qui vogliamo semplicemente vedere, in un’ottica di mercato, gli effetti di quello che potremmo definire il grande errore del dicembre 2018, il rialzo dei tassi da parte della Fed e la fine del Quantitative easing da parte della Bce.

Ricapitoliamo i fatti. All’inizio del 2018 entra in vigore la riforma fiscale americana, un’esplosione di luce che illumina crescita, utili e borsa. Tutti sanno e scrivono che la luce abbagliante durerà solo un anno, dopodiché le cose rallenteranno gradualmente. Sarà perfino possibile a un certo punto una breve recessione tecnica (Bernanke dice nel 2020, altri già nel 2019).

Che fa la Fed in dicembre, alla fine dell’anno di luce abbagliante e alla vigilia del rallentamento? Alza i tassi un’altra volta. I manuali dicono che la politica monetaria deve guardare avanti, a 12-18 mesi, ma qui si guarda a zero mesi.

E che fa la Bce in dicembre, quando la crisi del manifatturiero europeo sta entrando nel suo quinto mese e continua ad aggravarsi? Termina il Qe. Qui, bisogna dirlo, c’è una chiara pressione tedesca. La smania di uscire dall’eresia del Qe induce la Bundesbank, ai primi di settembre, a negare l’evidenza della crisi strutturale del settore automobilistico e a scrivere nel suo bollettino di fine agosto che le fabbriche tedesche hanno fatto qualche settimana sottotono perché hanno risistemato gli impianti ma si preparano a una brillante ripresa già in settembre. In settembre la ripresa non c’è e nemmeno in ottobre o in novembre, ma in dicembre il Qe viene chiuso lo stesso e si dichiara guarito un paziente che in realtà si è riammalato ormai da cinque mesi e che continuerà ad aggravarsi nei mesi successivi.

Senza il grande errore di dicembre si sarebbero attenuati gli effetti del rallentamento globale, ci saremmo risparmiati il tonfo prenatalizio delle borse, l’affannosa prima marcia indietro di Powell in gennaio (non alzeremo più), il rimbalzo nevrotico delle borse di quest’anno e la seconda marcia indietro di Powell di giugno (abbasseremo).

Senza la fine annunciata del Qe nell’Eurozona, d’altra parte, ci saremmo risparmiati una buona parte dei patemi sullo spread di ottobre e novembre e avremmo comunque attenuato il rallentamento di quel manifatturiero che, come ha detto oggi Draghi, sembra andare sempre peggio.

Va bene, tutti si sbaglia e alla fine quello che conta è avere l’intelligenza e l’umiltà di tornare sui propri passi e correggere il tiro. La correzione è al momento prudente e se per questa prudenza c’è qualche ragione evidente in America (la crescita è pur sempre vicina al 2 per cento), per l’Europa è necessaria qualche spiegazione in più.

La prima è che la Bce ha meno armi a disposizione della Fed per la semplice ragione che ha i tassi già ampiamente negativi. Queste armi vanno quindi centellinate. Bisogna evitare che il mercato noti, ancora di più di quanto non stia già facendo, che l’America ha più spazio per una politica espansiva e quindi per un dollaro più debole. Per evitare un euro forte nel momento peggiore le mosse europee devono essere sincronizzate con quelle americane e devono apparire più grandi, potenzialmente, di quello che saranno effettivamente.

La seconda spiegazione è che potrebbe esserci ancora qualche resistenza tedesca nei confronti di una politica apertamente espansiva. Queste resistenze alla fine verranno superate, perché la leadership politica tedesca rimane orientata, come è stata in tutti questi anni, a dare carta quasi bianca alla Bce pur di compensare la chiusura verso una politica fiscale espansiva.

Il nuovo Qe molto difficilmente includerà l’azionario

Che dovrà aspettare la prossima recessione globale per essere incluso negli acquisti. Sarebbe però interessante se includesse, con tutte le prudenze del caso, i bond bancari. Abbassarne i rendimenti avrebbe una ricaduta positiva anche sull’equity e aiuterebbe le banche molto più del tiering.

Il mercato è rimasto un po’ deluso dall’assenza di misure immediate da parte della Bce. Dal canto nostro siamo dell’idea che alla fine verranno fuori parecchie cose interessanti e anche per questo restiamo investiti.