Il Censis stima che il 65% dei giovani occupati dipendenti di oggi in Italia (tra i 24 e i 35 anni di età), avrà una pensione sotto i mille euro, pur con avanzamenti di carriera medi assimilabili a quelli delle generazioni che li hanno preceduti. Eppure, uno dei problemi principali è quegli stessi giovani non ne sono consapevoli.
Secondo un recente studio pubblicato da State Street Global Advisors in collaborazione con Prometeia, dal titolo La Ri-Evoluzione delle Pensioni: Rapporto sullo Stato dell’Arte delle Pensioni Italiane, il 75% degli under-35 italiani, infatti, afferma di avere nozioni limitate o inesistenti sulle pensioni. Ma non finisce qui. Lo studio rivela inoltre che il 70% delle famiglie pensa di non avere informazioni sufficienti sulle pensioni integrative, eppure, allo stesso tempo, l’81% degli interpellati ritiene che la propria pensione futura non sarà soddisfacente (il sondaggio ha riguardato 1.367 individui di età compresa tra 18 e 74 anni).
La prima conseguenza di questa mancata conoscenza in materia riguarda il poco successo delle forme di previdenza integrativa. Malgrado la riduzione del welfare, di fatti, le somme investite in fondi pensione e altri strumenti del secondo pilastro rimangono in Italia molto contenute e rappresentano appena il 9,6% del Pil, una delle percentuali più basse tra i paesi Ocse.
Per la maggior parte degli intervistati (il 36%), i costi rappresentano il principale ostacolo all’utilizzo di fondi pensione complementari. “Eppure – si legge nell’analisi – questo motivo appare infondato, dato che i costi per i fondi pensione integrativi sono meno di un quarto di quelli dei fondi comuni e di altri prodotti pensionistici privati. Questa risposta rivela che i fondi pensione complementari sono spesso incompresi”. Clicca qui per leggere Fondi pensione, l’importanza dei costi.
Insomma, c’è molta confusione intorno al risparmio previdenziale e alle opzioni disponibili per i lavoratori. “È fondamentale educare e definire chiaramente le diverse opzioni – commenta Antonio Iaquinta, responsabile di State Street Global Advisors in Italia – Una campagna promozionale organizzata dal governo potrebbe essere un modo efficace di educare i lavoratori e sfatare i miti che avvolgono i fondi pensione. Potrebbe inoltre essere utile a ripristinare la fiducia dei lavoratori nelle pensioni”.
Sotto controllo la spesa previdenziale, non quella per assistenza
Intanto, il 21 febbraio scorso, il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali ha presentato presso la Camera dei Deputati il quinto rapporto sul bilancio del sistema previdenziale italiano.
Nel 2016, la spesa pensionistica italiana relativa a tutte le gestioni ha raggiunto, al netto della quota GIAS (vale a dire la gestione per gli interventi assistenziali), i 218 miliardi di euro, mentre le entrate contributive sono state pari a 196 miliardi, per un saldo negativo di quasi 22 miliardi. A pesare sul disavanzo, in particolare, la gestione dei dipendenti pubblici.
Rispetto al 2015, sono aumentati invece del 2,7% i contributi versati: si riduce quindi di 4,56 miliardi il saldo negativo di oltre 26 miliardi registrato nel 2015.
Prosegue la riduzione del numero di pensionati, che ammontano a poco più di 16 milioni, segnando il punto più basso dopo il picco del 2008, mentre aumentano gli occupati. Il rapporto attivi/pensionati ha toccato quindi nel 2016 quota 1,417, livello migliore dal 1997 (primo anno utile al confronto), un dato fondamentale per la tenuta di un sistema pensionistico a ripartizione come quello italiano.
Il tutto mentre la spesa pensionistica pura è aumentata dal 2015 al 2016 dello 0,22%, segnando un incremento triennale dello 0,57%, tra i più bassi di sempre.
“I numeri evidenziano innanzitutto come la dinamica della spesa per le pensioni sia assolutamente sotto controllo”, afferma Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali. Non si può dire la stessa cosa delle prestazioni assistenziali: nel 2016, risultano in pagamento in Italia 4,1 milioni di prestazioni di natura interamente assistenziale, per un costo totale annuo di oltre 21 miliardi. Prestazioni per le quali, ricorda il Rapporto, non è stato di fatto versato alcun contributo specifico, essendo finanziate dalla fiscalità generale.
“Ecco perché separare la spesa previdenziale da quella assistenziale è un esercizio necessario su più fronti – continua Brambilla – Innanzitutto, si tratta di un’operazione utile a livello contabile, perché consente di fare chiarezza su spese molto diverse tra loro per finalità e modalità di finanziamento, ma che troppo spesso sono impropriamente comunicate, come se fossero assimilabili tra loro, anche a organi e istituzioni internazionali. Si tratta poi evidentemente di un esercizio di equità tra chi ha versato e chi no”.
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