La grandezza di Giordano Bruno è di avere spalancato con audacia e irrequietezza gli orizzonti mentali chiusi fin dai tempi di Aristotele in un universo finito, ordinato e antropocentrico. L’universo, dice Bruno con violenta passione, non è la stellifera concavità degli aristotelici. È al contrario infinito e la nostra Terra non è al suo centro. Esistono d’altra parte infiniti corpi celesti e l’uomo è solo una delle infinite manifestazioni di Dio. Visionario, non scienziato, Bruno porta all’estremo le idee che Copernico, mezzo secolo prima, aveva mantenuto prudentemente in un ambito ipotetico, e finisce sul rogo il primo febbraio 1600.
Per un lungo decennio, dal 2009 a oggi, abbiamo vissuto nella stellifera concavità di un mondo artificiale, una specie di globo trasparente in cui la complessità del reale veniva rinchiusa e semplificata. La politica si è ritirata sullo sfondo, le banche centrali hanno preso in mano la conduzione dell’economia e dei mercati e con il Quantitative easing hanno pianificato nei dettagli i livelli di crescita e la rivalutazione generalizzata degli asset finanziari.
Fare previsioni, in questi anni, è stato relativamente semplice. C’è stata una sola variabile da analizzare, la propensione delle banche centrali a mantenere, allargare o restringere il Qe. È stato a suo modo un mondo aristotelico, ordinato, intuitivo, chiuso e facile da capire. Operare sui mercati è stato come guidare un tram su un binario rettilineo. Il tram può solo andare avanti o fermarsi e vive in un mondo a due dimensioni. Chi investe deve solo regolare la velocità del tram, ovvero il profilo di rischio, ma non ha bisogno di scegliere tra long e short perché la sua posizione netta rimane sempre rialzista. Due anni fa questo modello ha iniziato a entrare in crisi.
Trump ha riportato la politica sulla scena e se non fosse stato lui, se le primarie democratiche fossero state più corrette, sarebbe stato Sanders a farlo. In tutto l’Occidente la politica mainstream è arroccata sulla difensiva e la possibilità che gli elettori compiano scelte radicali, in una direzione o nell’altra, continua a crescere. Questo rende più difficile fare previsioni.
Non bastasse, le banche centrali sono diventate impazienti di svezzare i mercati. Uno dopo l’altro tutori e stampelle vengono ritirati. I prezzi artificiali di bond e azioni diventano gradualmente e faticosamente prezzi naturali. Vengono ripristinati i premi per il rischio che erano stati soppressi dall’azione delle banche centrali. I premi per il rischio, a loro volta, vanno a insistere su una struttura dei tassi che si muove quando possibile al rialzo, con un doppio effetto negativo sui prezzi degli asset finanziari.
Molti investitori, formatisi nel clima tolemaico degli anni scorsi, faticano comprensibilmente ad adattarsi agli infiniti mondi possibili che cominciano a delinearsi per i prossimi anni. La possibilità di una Casa Bianca socialista nel 2020, le reversibilità dell’euro un tempo impensabile e oggi quanto meno pensabile, il rischio di una guerra fredda tra Stati Uniti e Cina, la possibilità di una nuova deflazione da debito nel prossimo decennio o di reflazioni aggressive a furor di popolo, tutto questo apre la strada a una serie di scenari non più lineari ma basati sulla logica del se/allora. Nessun utilizzatore di previsioni ha mai amato gli scenari se/allora.
A un analista si chiede di sbilanciarsi, non di disegnare mondi possibili alternativi l’uno all’altro. Quando però vediamo un David Kostin, brillante strategist azionario di Goldman Sachs, abbandonare la classica previsione puntuale di dove sarà il mercato alla fine dell’anno prossimo e adottare invece tre scenari, abbiamo la conferma che siamo entrati in tempi nuovi e nebbiosi. E del resto, per prevedere dove starà l’SP 500 a fine 2019 bisogna avere un’idea di come allora si vedrà il 2020, un anno in cui potrebbe esserci, ma anche non esserci, una recessione negli Stati Uniti (e quindi nel mondo).
Negli anni scorsi, quando il ciclo era più giovane, nessuno si poneva seriamente la questione. Oggi ha perfettamente senso porsela, anche se le probabilità, al momento, non sono alte. Gestire un portafoglio, in pratica, non è più come guidare un tram e sta diventando difficile come pilotare un caccia che si muove veloce in uno spazio tridimensionale. In un contesto complesso aumentare la liquidità è la prima regola. La liquidità ha rendimento zero o negativo? Pazienza.
D’altra parte non si tratta di tenere tutto in cash ma di ridurre quando possibile su livelli prudenti bond e azioni. Se questi andranno bene, il portafoglio andrà comunque bene. Se andranno male, il danno sarà più sopportabile e si avrà l’opportunità di acquistare a sconto le cose migliori. Trasferirsi sul dollaro e comprare Treasuries? Il rendimento è molto buono e non c’è bisogno di arrischiarsi sulle scadenze lunghe perchè anche il breve ormai è interessante. E non c’è nemmeno bisogno di comprare crediti più o meno solidi, perché il risk free è già allettante di suo.
Attenzione, però. Il dollaro è caro e se ci sarà una recessione, o anche solo un forte rallentamento della crescita, verrà giù anche lui. La seconda regola per i tempi nuovi è quella di spostarsi, in borsa, su grandi capitalizzazioni difensive, di qualità e non particolarmente legate alla crescita, ma piuttosto al valore. La crescita (tecnologia in America, lusso e small caps in Europa) non è finita per sempre, ma gli alti multipli cui è stata spinta in questi anni continueranno a scendere fino alla fine della prossima recessione. Se ci sarà, come è ben possibile, un rialzo di fine anno, i titoli legati alla crescita saranno i primi da vendere. Assicurazioni e largo consumo sono i settori su cui continuare a puntare.
Per restare in Europa e non prendersi il rischio dollaro ricordiamo che la borsa svizzera è ricca di nomi di qualità in questi settori. Non sono titoli scattanti, ma danno spesso ottimi dividendi e non daranno patemi d’animo eccessivi in caso di recessione. Nel breve termine rimaniamo aperti alla possibilità di un recupero di fine anno delle borse e dell’euro.