Il 2018 si sta rivelando un anno estremamente difficile per gli asset manager e l’esplosione di volatilità a cui abbiamo assistito in ottobre ha confermato questa tendenza. La repentina inversione di rotta dei mercati azionari americani infatti ha messo in crisi una delle poche asset class che ancora resistevano all’attacco ribassista. Se lo S&P 500 ha perso oltre dieci punti percentuali, gli altri listini azionari internazionali non hanno certo guadagnato terreno. Come spesso accade nelle fasi orso la correlazione tra i mercati è cresciuta e le borse sono crollate all’unisono. Con questo movimento Europa ed emergenti hanno confermato le difficoltà apparse nel corso dell’anno e hanno reso insindacabile il giudizio negativo sul loro trend di medio termine.
Ma oltre ai repentini cambiamenti di rotta dei mercati, gli operatori finanziari devono fare i conti con un aspetto assai più difficile da gestire: l’assenza di forme d’investimento alternative all’equity su cui vi siano aspettative di rendimento migliori. In modo estremamente semplicistico potremmo dire che nel 2018 abbiamo dovuto affrontare una fase di mercato in cui sia azioni che obbligazioni, tradizionalmente i due elementi più importanti nel determinare le performance di un portafoglio, hanno perso terreno.
Così mentre il Ftse Mib è sceso di oltre dodici punti percentuali da inizio anno, i titoli di stato italiani sono calati in media del 5,5%.
Confronto tra l’indice FTSE MIB (in bianco) e l’indice Bloomberg Barclays Italy Govt All Bonds Total Return (in verde) nei primi dieci mesi del 2018. Fonte Bloomberg
La colpa non è solo delle operazioni speculative che hanno investito il nostro paese dopo la manovra finanziaria varata dal governo ma va ricercata nel cambiamento di impostazione che le principali banche centrali hanno dato alle loro politiche monetarie. L’aumento dei tassi, effettivo o atteso, deprime le valutazioni di tutti gli asset presenti sul mercato soprattutto di quelli obbligazionari.
Volendo tornare indietro nel tempo ad un periodo di profonda crisi dei mercati azionari la mente va immediatamente al 2008 quando la bolla immobiliare statunitense ha trascinato nel baratro tutti i listini. Ma nei primi 10 mesi di quell’anno, culminati con il fallimento di Lehman Brothers, una delle più importanti istituzioni finanziarie a stelle e strisce, e mentre il Ftse Mib faceva registrare un -43% da inizio anno, i titoli di stato italiani erano risusciti a mantenere il loro valore generando addirittura del rendimento per i loro detentori.
Confronto tra l’indice FTSE MIB (in bianco) e l’indice Bloomberg Barclays Italy Govt All Bonds Total Return (in verde) nei primi dieci mesi del 2008. Fonte Bloomberg
In quel periodo di panico, chi fuggiva dall’equity poteva veleggiare verso porti che sebbene non garantissero una sicurezza estrema, rappresentavano una soluzione di portafoglio più che soddisfacente. Questa opzione nell’anno in corso non esiste più ed è questo a rendere così complicato il lavoro di gestione dei portafogli, anche per chi adotta un approccio tattico e dinamico agli investimenti.
Le performance medie registrate dai gestori di fondi comuni flessibili (-4.88%) e bilanciati (-3.92%) ben sintetizza queste difficoltà.
Confronto tra l’indice Fideuram Flessibili (in bianco) e l’indice Fideuram Bilanciati (in giallo) nei primi dieci mesi del 2018. Fonte Bloomberg
Al fine di estendere l’analisi delle performance ottenute in questi primi dieci mesi dell’anno a tutte le asset class si può prendere in esame l’andamento degli ETF quotati su Borsa Italiana. Dal momento che questi strumenti hanno come obiettivo quello di replicare il più fedelmente possibile l’andamento di un mercato e siccome negli ultimi anni sono stati quotati prodotti su un’infinità di soluzioni d’investimento osservare i loro risultati può essere d’aiuto a capire grossolanamente ma efficacemente quanto sia stato complesso il 2018.
Trascurando gli strumenti a leva e focalizzando l’attenzione su quelli che hanno un controvalore medio scambiato giornaliero superiore ai 100.000 euro, l’analisi mette in evidenza che il 70% degli ETF ha una performance YTD negativa, dato che sale all’81% se si considera il solo mese di ottobre.
Se da un lato non sorprende che il 67% degli ETF azionari sia in territorio negativo, è alquanto complesso avere a che fare con un dato superiore all’80% per quelli obbligazionari. Anche il 60% dei prodotti che si occupano di materie prime sono al di sotto dei livelli di inizio anno.
Sebbene questa analisi non approfondisca l’entità delle perdite e si riferisca ad un universo di asset class molto diverse tra loro, può essere uno spunto per comprendere il contesto nel quale stiamo operando.
In attesa di conoscere cosa ci riserveranno gli ultimi due mesi dell’anno vale la pena ricordare che in presenza di mercati sempre più difficili solo chi ha obiettivi chiari ed una rigorosa strategia d’investimento per perseguirli può sopravvivere.