Vi risvegliate oggi e, da trader compulsivo, correte a guardare le quotazioni della parte inglese del vostro portafoglio. Durante il vostro sonnellino la borsa di Londra è cresciuta del 27.5 per cento. Tirate un sospiro di sollievo, Brexit è stata respinta. Londra è del resto avanzata in linea con le altre borse europee. Milano è salita del 27.4 e Francoforte del 30.5. Tutti allineati come soldatini, tutti ancora insieme. Ve lo confermano anche i vostri gilt decennali. Lo spread sui Bund dei governativi britannici era di 122 punti quando vi siete addormentati ed è sceso ora a 97 punti. Ottimo. Solo la sterlina si è indebolita, del 10 per cento contro euro e del 5 contro dollaro. Ci voleva, pensate, il Regno Unito viveva ampiamente sopra i propri mezzi con una sterlina sopravvalutata ed era arrivato ad avere un disavanzo delle partite correnti del 6 per cento. Certo, non c’erano mai stati problemi a finanziarlo, con tutti quei ricchi russi e arabi che si compravano palazzi a Londra e tutte quelle multinazionali che aprivano fabbriche e uffici nella flessibile e desindacalizzata Inghilterra per poi esportare nel resto della rigida Unione Europea. E comunque tutto quel disavanzo non era sano e rendeva il Regno Unito troppo dipendente dall’estero. Cercate il rapporto annuale del Fondo Monetario sul Regno Unito e constatate che la svalutazione ha avuto successo e che il disavanzo delle partite correnti si è ridotto dal 6 a un più gestibile 3.8. La sterlina più debole ha fatto salire l’inflazione, ma solo per qualche mese. La stima per quest’anno è del 2.6, meno del CPI americano.
Nel frattempo i conti pubblici (se ricalcolati con l’aggiustamento al ciclo che si usa nell’eurozona) hanno raggiunto la perfezione del pareggio di bilancio. Ovvio, pensate, non avendo avuto il problema di Brexit non hanno avuto bisogno di sostenere l’economia con spesa pubblica. Provate però un po’ di delusione scorrendo le stime della crescita, che è stata sempre buona, ma meno di quello che ci si aspettava due anni fa. Il Fondo Monetario ritiene che il potenziale per il Regno Unito sarà nei prossimi anni dell’1.5. È lo stesso livello dell’eurozona, segno che la convergenza si è ormai realizzata e che da qui in avanti si procederà tutti insieme. Del fatto che il Regno Unito, avendo evitato Brexit, sia in pace con sé stesso, traete conferma anche dall’indebolimento delle tendenze separatiste in Scozia e Irlanda del Nord, scese al 40 per cento dei consensi in Scozia e al minimo storico del 21 nell’Ulster. Ma ancora più interessante è che il Regno Unito sia oggi l’unico paese europeo privo di forze politiche antisistema e in cui, con la scomparsa di Ukip e il maggioritario a un turno, ci sia ancora un bipartitismo praticamente perfetto. Liberi di esprimersi per via referendaria sulle questioni che stanno loro a cuore, gli inglesi non hanno bisogno di scaricare la loro frustrazione verso le elites votando partiti e movimenti radicali. Con tutte queste buone notizie è evidentemente grande il vostro stupore quando venite a sapere che il referendum è stato vinto dai Leave, quelli che dovevano fare crollare borsa e Pil, mettere in moto la disgregazione finale del regno e ritirarsi in una Little England dominata da Ukip. Così non è stato, ma nemmeno si sono visti, per ora, i benefici immediati che i Leave avevano promesso ai loro sostenitori. Brexit ha sempre avuto due anime ideologiche, la prima sovranista e la seconda globalista. Sovranista è stato il voto popolare, irritato soggettivamente contro l’immigrazione e oggettivamente contro la globalizzazione. È un’anima che è sempre stata presente nella storia britannica, basti pensare ai Little Englanders che a metà Ottocento si opponevano all’allargamento dell’impero, considerato costoso e inutile. Globaliste, nel mondo Leave, sono invece state le elites, sedotte dall’idea della Gran Bretagna potenza oceanica, che non deve perdere tempo con un’Europa stagnante e oppressiva e deve invece lanciarsi verso il mondo che cresce, la Cina, l’America e gli emergenti. Come ai tempi dei Tudor, quando Enrico VIII ed Elisabetta fecero la prima Brexit, rompendo con la Chiesa di Roma e con l’Impero e proiettandosi con i loro velieri corsari e regolari nei nuovi mondi.
Quello che ora rischia il Regno Unito è di non fare passi avanti in nessuna delle due direzioni, di non riuscire cioè né a staccarsi sovranisticamente dall’Europa (diventandone di fatto ancora più succube in cambio di una finta indipendenza) né a proiettarsi coraggiosamente verso il mondo. Il risultato è un limbo frustrante, che rischia di protrarsi ancora molti anni (l’anno prossimo ci sarà l’uscita formale, ma non cambierà molto perché si aprirà immediatamente un periodo transitorio fino al 31 dicembre 2020, che probabilmente verrà prolungato ulteriormente). In questo limbo il regno soffrirà di una seria crisi di identità, non sarà né carne né pesce, così come non ha identità Theresa May, capace solo di galleggiare nel magma dei malumori del paese e di negoziare al ribasso con un’Unione Europea che, bastonata da Trump, cerca a sua volta di bastonare più che può la provincia ribelle. E sul tutto aleggia Corbyn il socialista, che con la sua presenza ingombrante e temibile costringe l’establishment ad arroccarsi nell’immobilismo e a prolungare il più possibile una legislatura nata debole e confusa. Per questo, senza essere particolarmente pessimisti, è difficile essere positivi sugli asset del regno. L’immobiliare non andrà in crisi seria perché l’Inghilterra ha bisogno di case, ma si dovrà dimenticare i rialzi degli anni scorsi, trainati da una domanda di immigrati di lusso che per qualche anno sarà più debole. La sterlina dovrà ancora indebolirsi, anche se non di molto. In borsa andranno quindi favoriti gli esportatori, compatibilmente con i dazi europei e americani in via di innalzamento. Rimarranno al Regno Unito due grandi carte. Una è la flessibilità, che ha permesso a Osborne di tagliare nel 2014 mezzo milione di statali (subito riassorbiti dal settore privato) senza scioperi e tragedie sociali e alla Bank of England, dopo Brexit, di intervenire agilmente e aggressivamente per ammortizzare la scossa. Questa flessibilità, già nella seconda metà del prossimo decennio, permetterà di recuperare il tempo perduto. La seconda carta sarà quella di porto sicuro fuori da un’Unione Europea sempre più agitata e incapace a sua volta di trovare una strada.
Venendo al breve termine, fra due settimane avremo i dati sugli utili del secondo trimestre, che saranno buoni e che cadranno in una fase in cui l’America sta crescendo a una velocità perfino superiore al 3 per cento. Quanto ai dazi, dopo le elezioni di novembre la pressione americana si allenterà. L’anno prossimo sarà più difficile per le borse, ma per il 2018 non è così azzardato pensare, dopo la correzione in corso, a un’ultima gamba di rialzo più avanti nell’anno.
A cura di Alessandro Fugnoli, Kairos