Amministrazione Gillum. Amministrazione O’Rourke. Come suona? Fino all’altro ieri si provava tutti quanti a fare l’orecchio alla prossima Casa Bianca democratica post-trumpiana. Andrew Gillum e Beto O’Rourke, due giovani e brillanti rappresentanti della nuova sinistra democratica radicale, dovevano solo legittimarsi elettoralmente nei due stati più importanti dell’attuale geografia politica americana per essere poi proiettati trionfalmente verso le presidenziali del 2020. Gillum, però, non è riuscito a diventare governatore della Florida e O’Rourke è stato battuto, sia pure di un soffio, niente meno che da Ted Cruz, l’ultratrumpiano senatore del Texas.
In politica si muore e si risorge in fretta, ma è chiaro che i grandi finanziatori del partito democratico non punteranno più, almeno per il prossimo giro, su un candidato radicale e torneranno a orientarsi sull’usato sicuro, rappresentato in questo momento dal centrista Joe Biden, di tre anni più vecchio di Trump ma combattente nato e molto amato in quegli stati di vecchia industrializzazione che Trump strappò due anni fa ai democratici.
Benché abbia avuto un significativo successo elettorale, in particolare nell’elettorato femminile suburbano, la sinistra radicale vede dunque ridimensionate le sue speranze di arrivare alla Casa Bianca, nazionalizzare subito la sanità, cancellare la riforma fiscale di Trump, raddoppiare il salario minimo, limitare fortemente la libertà d’azione di banche e imprese e aumentare le tasse ai ricchi. E a ridurre ulteriormente la possibilità di riforme così radicali, che richiederebbero un allineamento perfetto tra la Casa Bianca e i due rami del Congresso, è anche il rafforzamento repubblicano nel Senato, che nel 2020 verrà rinnovato solo per un terzo e che quindi più difficilmente passerà ai democratici.
Trump, dal canto suo, ha buone ragioni per guardare con qualche ottimismo alla rielezione. Ha compattato la sua base e conquistato il partito repubblicano, si è rafforzato al Senato (e quindi, attraverso il meccanismo delle nomine, nella magistratura) e non teme, anzi si augura, che la nuova camera bassa democratica si consumi nei prossimi due anni in una guerriglia sterile contro di lui.
Se ci siamo dilungati sul quadro politico americano, oggi meno preoccupante di una settimana fa, è per due ragioni. La prima è che se è vero che il 2019-20 saranno anni difficili per i mercati, c’era una sola ragione per dubitare che il periodo successivo, la prima metà degli anni Venti, non avrebbe potuto vedere una ripresa del grande rialzo azionario degli anni Dieci, e questa ragione, una Casa Bianca socialista, appare oggi più lontana. La seconda ragione è che di fronte a un’Europa in crisi di identità e a un euro sempre più malfermo, l’America e il dollaro offrono una buona alternativa, magari sopravvalutata ma comunque, nel tempo, capace di preservare il capitale.
Se però la prospettiva americana fosse stata leggibile solo fino al 2020 e se dopo quella data avesse continuato a esserci un grosso punto interrogativo, passare dall’Europa all’America sarebbe stato inutile e addirittura rischioso. Le considerazioni fatte fin qui aprono la strada a una continuazione del recupero azionario nei prossimi due mesi. L’inflazione è in un momento di calma, il petrolio è debole e la Fed se, come probabile, alzerà i tassi a dicembre, potrà permettersi di mostrarsi tranquilla e rassicurante.
Se poi davvero vedremo un poco di riaccelerazione nella crescita europea e se dall’incontro tra Trump e Xi uscirà l’idea di una tregua anche breve nella guerra commerciale, non sarà così difficile tornare a vedere la borsa americana vicina ai suoi massimi e quelle europee dimezzare le perdite di quest’anno. A quel punto, però, sarà probabilmente il caso di scendere dall’autobus di questo rialzo decennale e sedersi in panchina, magari per aspettare l’autobus successivo.
Non per pessimismo cosmico, ma per la semplice considerazione che, per il 2019 e per la prima metà del 2020, le possibilità di ulteriori rialzi saranno modeste, mentre quelle di correzioni anche più ampie di quelle che abbiamo visto quest’anno, saranno più alte. Se i dieci anni passati sono stati il trionfo del buy and hold, i prossimi due, anche in assenza di recessione, andranno giocati in modo più tattico. Per dirla semplicemente, per approfittare delle correzioni più che prevedibili bisognerà avere liquidità impiegabile e, per averla, bisognerà avere venduto prima.
Le ragioni per possibili correzioni non mancano di certo. La Fed alzerà i tassi almeno altre tre volte e i mercati non sono pronti a questo esito e tanto meno lo sono in caso di rialzi ancora più numerosi. La Bce abbandonerà il Qe pur in presenza di una crescita europea insoddisfacente. La Cina dovrà fronteggiare i dazi. Le politiche fiscali non saranno più espansive (se non forse in Cina). La crescita americana verosimilmente rallenterà. La grande marea di liquidità creata in questi anni dalle banche centrali e che nel 2018 si è stabilizzata (creando già qualche problema) nel 2019 comincerà a ridursi.
Ripetiamo, nessuno di questi fattori, nemmeno se considerati tutti insieme, comporta necessariamente un bear market pesante, ma la possibilità di una o più correzioni da 10-15 per cento non può essere negata nemmeno dall’ottimista più convinto. L’alternativa è non fare nulla, dare spazio al mercato di correggersi e aspettare la ripresa del prossimo decennio. Il rischio, in questa scelta, è quello di vedere prima o poi prezzi più bassi, spaventarsi e vendere sotto i buoni livelli che raggiungeremo nelle prossime settimane. Meglio dunque essere proattivi e anticipatori.