Come mai ricordiamo il Piano Marshall del 1948-53 molto meglio del Piano Unrra del 1946-47? Non furono forse praticamente uguali in rapporto al Pil europeo? Non furono forse entrambi pensati per offrire sollievo e speranza a un continente distrutto dalla guerra e sconvolto dalle ondate migratorie del dopoguerra?
Se l’azione dell’Unrra, l’agenzia delle Nazioni Unite quasi totalmente finanziata dagli Stati Uniti, ebbe un impatto molto più limitato fu per due ragioni. La prima fu la sua natura puramente assistenziale. La seconda fu la sua mancanza di orizzonte temporale (i fondi venivano rinnovati ogni trimestre e ogni volta poteva essere l’ultima).
Quando il Dipartimento di Stato, su impulso di Truman, avviò lo studio del Piano Marshall, fu subito chiaro che l’aiuto all’Europa avrebbe dovuto avere un orizzonte lungo predefinito fin dalla partenza, in modo da dare un quadro di riferimento certo a tutti i protagonisti politici e sociali europei. Fu anche evidente la necessità di disegnare il piano con una strategia precisa. Si trattava di sfruttare il solido quadro monetario disegnato in precedenza a Bretton Woods per incentivare gli investimenti, rilanciare il commercio internazionale (che allora non era una petizione di principio ideologica, ma il dato di fatto che l’Europa non aveva più un dollaro per importare beni d’investimento e aveva appena perso metà del continente come mercato di sbocco per i suoi prodotti) e promuovere la stabilizzazione politica e sociale, incluso il rilancio dei sindacati bianchi, che fu parte importante del piano. Alla fine del 1946 la ripresa economica europea era già finita e il continente appariva sull’orlo del caos. Le nascenti democrazie popolari dell’est avviavano i loro piani quinquennali e il loro modello dirigista e statalista costituiva una forte tentazione anche a ovest. Nonostante Yalta avesse spartito le sfere d’influenza, la tenuta dell’ovest non era percepita come solida. Nessun investitore privato americano metteva i suoi capitali in Europa, anche perché chi l’aveva fatto dopo
la Grande Guerra ne aveva mediamente perso la metà. Il democratico Truman dovette dunque faticare parecchio per convincere il Congresso, che nel frattempo era passato ai repubblicani, a stanziare 13 miliardi di dollari per il piano. Il senatore Taft, capo dell’opposizione, era un isolazionista e propugnava il ritorno al pareggio di bilancio. Per convincerlo, Truman fece leva sui repubblicani della Commissione Esteri del Senato, preoccupati per la minaccia
comunista.
Solo il 17 per cento dei fondi del piano fu destinato direttamente agli investimenti, ma gli investimenti erano il perno attorno a cui girava tutto il resto. Il piano ebbe anche una componente di condizionalità, ma mai punitiva. Per ogni dollaro del piano, i governi europei dovevano metterne un altro e affidarne la gestione agli Stati Uniti. Nel caso della Gran Bretagna il secondo dollaro fu speso per riacquistare titoli governativi sul mercato e diminuire il debito, negli altri paesi prevalsero gli investimenti e anche per questo la Gran Bretagna ebbe il tasso di crescita più basso di tutti durante la vita del piano. La quantificazione degli effetti del piano è dibattuta da decenni dagli storici. Per alcuni fu decisivo, per altri si limitò a dare un importante contributo a una ripresa che ci sarebbe stata comunque. Visto oggi, il valore del piano non fu nei dollari (il ) ma nell’organicità e solidità del suo disegno. Con 13 miliardi di finanziamenti diretti si sbloccarono quantità ben maggiori di fondi e di energie private europee e americane, si consolidò il quadro politico e sociale e si prepararono le basi dei miracoli economici degli anni successivi. Si avviò, in altre parole, un circolo vizioso. Sarebbe bello se l’Europa si volesse regalare oggi un nuovo Piano Marshall ed è scoraggiante che i pochi che ne parlano lo facciano sottovoce. C’è in tutti la consapevolezza che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e se il sordo è la Germania è inutile perdere tempo. Macron ci ha provato, ma quello che si vede al momento è solo l’ennesima riedizione della commedia in cui la Francia chiede 100, la Germania concede 10 e alla fine si fa 1 (ricordate il piano Juncker?).
Eppure un ripensamento strategico radicale del modello economico europeo andrà pure affrontato (e anche in tempi drammaticamente brevi) se si vuole evitare che le nuvole nere che si vanno formando nei nostri cieli diventino pioggia o tempesta. E del fatto che queste nuvole ci siano sembra essere consapevole la Bce, se all’ottimismo di facciata fa seguire, in maniera del tutto incoerente, un comportamento monetario sempre più giapponese (con tassi reali ormai proiettati su livelli ancora più negativi di quelli giapponesi fino al prossimo decennio). L’Europa e la Cina, già dieci anni fa, avevano lo stesso problema, quello di avere sistemi economici basati sulle esportazioni. La dirigenza cinese, più intelligente, flessibile e illuminata, ha sempre avuto piena consapevolezza della fragilità di un modello di questo tipo, ha ancora tirato la corda per qualche anno per sistemare le sue cose e poi ha avviato un processo di ribilanciamento dalle esportazioni ai consumi che ha ridotto il suo surplus delle partite correnti a un modesto 1.2 per cento. L’Europa, per contro, non si è mai posta il problema. Nell’ordinamento teologico eurotedesco il surplus fiscale e quello delle partite correnti sono la redenzione dal peccato originale ottenuta con il sudore della fronte del lavoro, della parsimonia e della competitività. Essendo bene in sé e non strumento di politica economica, i surplus non possono essere messi in discussione, soprattutto se a farlo sono immancabilmente soggetti viziosi che vorrebbero spendere di più. Il risultato è che il surplus corrente europeo, in rapporto al Pil, è il triplo di quello cinese.
Il problema è che, a metterlo in discussione adesso è Trump, che vuole imporre nuovi dazi alle auto tedesche e, in generale, ridurre drasticamente, con le buone o con le cattive, il surplus europeo. L’Europa ha provato a reagire, prima con il disprezzo, che non è servito a niente, e poi studiando dazi da imporre come ritorsione all’America. È un terreno pericoloso perché l’America, paese importatore, può sopportare l’escalation molto meglio dell’Europa. La guerra commerciale cade oltretutto in un momento politicamente molto delicato. Le forze antisistema stanno raggiungendo una forza elettorale che in certi casi è perfino superiore a quella del comunismo nell’immediato
dopoguerra. Il colpo alla crescita che deriverebbe da una caduta dell’export europeo (che ora risente anche delle barriere alzate dalla Cina) rafforzerebbe ulteriormente queste forze.
Che fare allora? Rilanciare i consumi interni? Si può fare, ma non sarebbe la soluzione ottimale. Meglio allora rilanciare gli investimenti, ovviamente in deficit. Un Piano Marshall che l’Europa regala a se stessa. Riuscirà la Germania a superare i suoi tabù? Probabilmente sì, ma bisognerà purtroppo aspettare che l’acqua le salga alla gola, che la crescita cali e che nuove elezioni eleggano al Bundestag una maggioranza diversa. Nell’attesa le borse europee continueranno a comportarsi meno bene di quella americana anche se l’euro rimarrà debole. E d’altra parte non dobbiamo augurarci che il dollaro si rafforzi ulteriormente, altrimenti la pressione congiunta del dollaro forte, dei tassi in aumento e degli utili che fra qualche mese cominceranno ad appiattirsi rischierà di mettere in difficoltà
anche l’America, il sostegno al quale siamo tutti aggrappati.