Bond e azioni, due universi paralleli, almeno in questi giorni. Nel mondo dei bond si percepisce la convinzione di una crescita economica solidissima, perfino eccessiva, da moderare con tassi in lento ma costante rialzo. Nel mondo azionario, al contrario, è diffusa l’idea che il meglio è ormai alle spalle, che questo ciclo è sostanzialmente al termine e che da qui in avanti sarà sempre peggio, fino alla prossima recessione.
Per non farsi mancare nulla, i pessimisti dell’azionario citano anche i democratici americani che si preparano a prendersi il Congresso e a cancellare la riforma fiscale che ha appena tagliato le tasse alle imprese, i tre candidati democratici alle presidenziali del 2020 che propongono la nazionalizzazione della sanità e il reddito di cittadinanza, la Cina che sta per essere travolta dai dazi, la Germania in stagnazione da tre mesi, la Brexit sempre più vicina e incerta, l’Italia pronta a farsi esplodere pur di far saltare per aria l’Unione Europea, mandare la Germania in recessione dura con un marco a 1.40 contro dollaro e contagiare il mondo intero.
Intendiamoci, sono tutte preoccupazioni degne di considerazione, ma molte sono premature, esagerate e poco probabili. I democratici riconquisteranno una camera e magari anche due, ma in America le grandi riforme (o controriforme) si fanno solo quando c’è un allineamento politico completo tra i due rami del Congresso e la Casa Bianca. Se vorranno cancellare la riforma fiscale, o proporre addirittura tasse più alte di quelle precedenti la riforma, i democratici dovranno aspettare il novembre 2020 e vincere tutto, ma proprio tutto. Il rischio che venga eletto un radicale che faccia esplodere il deficit e le tasse non può essere escluso, ma non è lo scenario di base.
Quanto alla Cina, la pressione di Trump sta effettivamente producendo un appannamento della crescita e delle prospettive, ma la svalutazione del renminbi è in grado di assorbire una parte rilevante dello shock. Questo vale non solo per le imprese cinesi che esportano, ma anche per quelle occidentali che producono in Cina e che compensano i dazi in uscita con i minori costi di produzione resi possibili dalla svalutazione.
In Europa c’è stato un marcato rallentamento negli ultimi tre mesi. Il settore automobilistico tedesco ha riconvertito produzione e modelli per allinearsi alle norme sugli scarichi inquinanti e questo si è riflesso sui dati della produzione industriale dell’intera filiera europea dell’auto, Italia inclusa. Quanto al caso italiano, lo scontro con la Commissione europea è tutto politico. Molto più del merito delle proposte è la sfida all’autorità dell’eurocrazia il vero casus belli. Si vede qui lo stesso schema che stiamo vedendo con Brexit. La Commissione mantiene una linea durissima, ispirata dal desiderio di punire la ribellione, ma dietro si comincia a vedere la Merkel, consapevole del danno per l’export tedesco da una rottura radicale con il Regno Unito, pronta a mediare. Con l’Italia vediamo un’eurocrazia offesa, irritata e pronta a infliggere il massimo della pena, ma dietro si profilano gli adulti, la Merkel e Draghi, che misurano i danni che una rottura con l’Italia può provocare alla Germania e all’euro e sono fautori di una qualche forma di dialogo.
Escluse dunque le concause, le cause del ribasso azionario sono fondamentalmente due, la compressione dei multipli e la graduale diminuzione della liquidità.
La compressione dei multipli è l’altra faccia del rialzo dei tassi. Il ritiro della liquidità in eccesso (che l’anno prossimo sarà ancora più evidente) amplifica gli effetti del rialzo dei tassi.
I tassi aumentano (e la liquidità scende) molto lentamente. Questa gradualità fa sì che per lunghe fasi il mercato azionario possa permettersi di ignorare il fenomeno e di concentrarsi su temi più visibili. Arriva però il giorno in cui l’erosione sotto i piedi diventa evidente. Bisogna prenderne atto e lo si fa con un repricing generalizzato e una tantum, almeno per questa fase.
Fatto il repricing, se i dati macro e quelli su margini e utili continueranno a essere positivi, l’azionario potrà riprendere a salire, ma per tornare di nuovo sui massimi avrà bisogno di utili più alti di quelli che aveva a disposizione nei picchi precedenti. È per questo che la storia di quest’anno e del prossimo è quella di un mercato in un range ampio (2400-3000 per lo Standard and Poor’s), non quella di un bear market classico causato da una recessione.
Se non si accetta questa spiegazione e si insiste nello spiegare il ribasso con i rischi di recessione ci si trova davanti a un problema logico. Se c’è davvero un rischio imminente di recessione, perché i bond non lo prezzano? L’unico modo per riconciliare rischio di recessione e tassi che salgono invece di scendere è che la Fed voglia espressamente provocare una recessione. Questo in passato è successo (si pensi alle due recessioni provocate dalla Fed di Volcker per abbattere l’inflazione nei primi anni Ottanta) ma non è certamente nelle intenzioni di Jay Powell. Se Powell alza i tassi sotto lo sguardo furente di Trump è perché pensa che l’economia americana sia in grado di reggere il colpo, non per mandarla in recessione.
Quanto verranno alzati ancora i tassi? Richard Clarida, la testa più brillante e capace di visione del board della Fed, ci spiega oggi la formula. A pesare sul numero di rialzi non saranno necessariamente la forza della crescita o il numero sempre più basso di disoccupati ma l’inflazione. La Fed, in altre parole, non cercherà di indovinare a quali conseguenze inflazionistiche porteranno crescita e pieno impiego, ma si limiterà a guardare l’inflazione effettiva. Se questa sarà stabile, ci potrà essere tutta la crescita che si vuole senza che la Fed alzi i tassi più di tanto. Ci pare un’indicazione preziosa per i mercati, che ragionano in termini di curva di Phillips più di quanto non ci ragioni la Fed.
Che fare allora? Dopo dieci anni di rialzi i portafogli sono mediamente già investiti abbastanza in rischio, per cui ci viene da suggerire di comprare qualcosa a 2700 solo a chi ha venduto qualcosa a 2900. Chi non l’ha fatto può stare fermo un giro e aspettare un nuovo rialzo per vendere. In un bull market maturo, ma ancora vivo, l’errore più grave è di diventare avidi. Detto questo, non raccomandiamo nemmeno di vendere, perché non c’è recessione alle viste e perché, finita la correzione in corso, novembre e dicembre saranno dedicati a un bilancio generale del 2018 in un clima meno penitenziale dell’attuale.
Oggi, a 2700, siamo sugli stessi livelli di inizio anno. Non è né impossibile né così raro che un anno che vedrà una crescita degli utili superiore al 20 per cento si chiuda con una performance azionaria pari a zero. È però difficile ipotizzare che si chiuda in negativo. Da qui a fine anno c’è più upside che downside, ma è sempre possibile (anche se non molto probabile), che la correzione in corso, dopo una pausa, riprenda e vada a toccare i limiti inferiori del 2018. Per questo calma, prudenza e niente avidità.